• Mar. Apr 29th, 2025

Carlo Martello

Un blog per ospitare le mie opinioni su politica, economia, storia, e chi più ne ha più ne metta

FuturismoIl futurismo

Ho ascoltato recentemente con vivo interesse una conferenza sul futurismo. Non essendo un appassionato o un cultore di arte, certamente non un intenditore, sono sicuramente il meno qualificato a parlarne. Vorrei ciò nondimeno, dato che il futurismo si è definito un movimento artistico, culturale e di costume ed è uno dei diversi linguaggi espressivi dell’arte moderna, provare a proporre una considerazione di carattere generale che è, insieme, di cultura e di costume (tralascio l’arte perché, come dicevo, il tema non mi è proprio).

Non si può, per prima cosa, omettere di considerare il fatto che il pensiero futurista si riconduca all’Illuminismo. Il movimento, infatti, propugnò un’arte e un costume che avrebbero dovuto fare tabula rasa del passato e di tutte le forme espressive tradizionali: l’intendimento, almeno ideale, era quello di bruciare musei e biblioteche. Lo ha ricordato esplicitamente anche la relatrice, peraltro in modo brillante, attraverso un’esposizione dallo scorrimento fluido nel raccontare e molto gradevole quanto ad ascolto. La sottolineatura – così, almeno, mi è parso di capire – ha voluto essere un tributo all’assoluta creatività di spirito del movimento e, al tempo stesso, una riaffermazione del rifiuto del passato, un’idea originariamente espressa dall’Illuminismo ma che è ripresa, sia pure sul fondamento di altri presupposti, dal movimento futurista.

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Voltaire e Jean Jacques Rousseau sono forse i due più prestigiosi esponenti del filone intellettuale che ha dato origine alla Rivoluzione francese. Diceva il primo: se volete delle buone leggi, bruciate quelle che avete e fatene di nuove. Aggiungeva il filosofo francese: Ogni cosa è buona mentre lascia le mani del Creatore delle cose; ogni cosa degenera nelle mani dell’uomo. Coerenza avrebbe dovuto suggerire ad entrambi – se tutto doveva essere giudicato fondamentalmente sbagliato e se ogni cosa doveva essere rifatta di sana pianta – di ritornare all’età della pietra per ricominciare davvero tutto da capo. Contrariamente a ciò la realtà, tradotti i principi nel concreto, appare molto meno traumatica:  il cambiare tutto, in linea di massima, significherà abbattere quasi niente. Nessuno, in effetti, per cancellare le lamentate brutture prodotte dalla civiltà, riterrà necessario rinunciare a buona parte dei ritrovati moderni (il cui apporto era, in fin dei conti, decisamente piacevole o confortevole o persino utile e conveniente) e rimuovere un’opera ed un’evoluzione in cui ciascuna parte era indubbiamente debitrice di ciò che era stato pensato e realizzato in precedenza, senza soluzione di continuità. L’origine della ruota e del carro risale alla civiltà mesopotamica e il primo carro accertato nei documenti mesopotamici pare sia datato 3.000 a.C. Senza aver conosciuto ruote e carri non sarebbe stato mai possibile pervenire alle bighe dell’Egitto dei faraoni o alla quadriga dell’antica Roma. Così, dalla carriola alla carretta, dal cocchio del XV secolo al calesse che ha retto fino alla prima metà del XX secolo, dalla carrozza, apparsa sulla faccia della terra sin dai primi anni del XIII secolo, alla diligenza giù fino alla corriera o all’automobile, esiste una sequenza ininterrotta di evoluzione. Buttar via tutto questo poteva suonare, usando della saggezza popolare, come gettare l’acqua sporca con il bambino. Si poteva trovare, a dire il vero, nel pensiero illuminista, un sottofondo almeno razionalmente giustificabile perché il passato, quello prossimo almeno, si poteva compiutamente descrivere solo relazionandolo, di necessità, all’asfissiante estremismo della monarchia assoluta (dal latino ab solutus, sciolto da limitazioni provenienti dall’esterno) che imperava non solo in Francia ma anche in Prussia e in Russia (l’État c’est moi di Luigi XIV significava sentirsi letteralmente al di sopra della legge o, come dicevano gli assennati latini, legibus solutus) e all’intollerabile oppressione delle classi privilegiate, quali il clero e la nobiltà, oziosamente improduttive e spensieratamente sperperatrici, contro le quali si abbatterà infine la furia devastante della rivoluzione.

Il cambiamento, in altri termini, avrebbe dovuto dunque manifestarsi, fermo tutto il resto, quasi esclusivamente e soprattutto nelle idee, in filosofia, nel pensiero politico e nei convincimenti sociali. Non dico molto rumore per nulla, ma quasi. Con qualche ulteriore e non secondaria incoerenza e qualche danno per via delle strane idee che sono state da allora promosse. La pretesa di un collettivismo sostitutivo di uno stato di natura che fa vivere l’uomo in instabilità ed insicurezza perenni a causa dell’assenza di regole certe a garanzia dei suoi diritti e doveri è insieme sempliciotta ed incongruente. Sempliciotta perché presume di rimpiazzare l’itinerario percorso dalla civiltà forgiata dall’uomo e i suoi principi con altre e nuove regole, scritte comunque dall’uomo, senza alcun segnale in grado di dimostrare come e perché quelle nuove avrebbero potuto essere risolutivamente migliori delle vecchie che, almeno, vantavano meditate e sedimentate sapienze ancestrali. Incongruente perché pretende di alienare la libera scelta dell’uomo per cederla ad una entità impersonale, di fatto senza pietà e senza umanità, ad una innominata società sovrana che patrocina una divinità astratta ed indefinita, la Volontà generale predicata da Jean Jacques Rousseau, capace di annullare tutte le antinomie e gli errori della civiltà. Questa fantomatica volontà generale, nella vissuta esperienza storica, contrariamente alle premesse ed alle promesse e negando il carattere trascendente della distinzione tra il bene ed il male, non ha affatto agevolato la liberazione dell’uomo ma ha creato le condizioni per la distruzione di qualsivoglia filosofia politica fondata sull’essere umano sostituito in modo disastroso con la classe del marxismo e del leninismo o in modo tragico con l’etnia e la razza del nazismo. Sosteneva Rousseau che l’uomo è nato libero ma ovunque è in catene, soffocato da tradizioni e superstizioni, da relazioni sociali e da un sistema sociale che viene dal passato e che genera il male da cui egli sarebbe in origine immune. Ma dal contrasto fra uomo naturale e uomo civile, manufatto del tutto artificioso infelicemente modellato dalla civiltà, discende il mito del buon selvaggio che è una costante ancor oggi del pensiero progressista (in contrapposizione, Lo stupido uomo bianco è, ad esempio, il titolo di un bestseller del molto progressista americano mister Michael Moore che, forse, guardandosi un mattino allo specchio per radersi, ha visto di fronte a sé un uomo bianco e non si è onestamente potuto esimere dal definirlo stupido uomo bianco) ma resta un mito insensato. Più pragmaticamente, sacrificando il presente per ipotetici futuri paradisi e con il sostegno della dea ragione dei giacobini di Robespierre che forma il propellente ideologico della rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche, si è suggerita a Stalin e a Hitler, a Mussolini e a Franco, al coreano (del Nord) Kim Il-sung e a Pol Pot, che fu incidentalmente un grande ammiratore della rivoluzione francese e causò alla Cambogia sofferenze enormi per via del genocidio perpetrato dai Khmer Rossi, proprio l’adozione dei modelli di società proposti da Jean Jacques Rousseau, tanto che Bertrand Russell, nella sua monumentale Storia della filosofia occidentale, può additare Hitler come conseguenza di Rousseau. Quanto più il potere si incarica di somministrare felicità tanto più si riduce la libertà dell’uomo. Asserisce al proposito Alain Finkielraut che la storia dovrebbe averci insegnato che niente è peggiore per la morale e per il mondo che la visione morale del mondo e non c’è dubbio che il filosofo francese sia stato un perfetto moralista. È l’ideologia della giustizia, è il pericolo – che ancora oggi corriamo come triste retaggio di quell’ideologia – che lo Stato di diritto venga svuotato dal suo interno cercando di ridurre la legittimità a legalità e da legalità come Stato di diritto a legalità come semplice conformità all’ordinamento giuridico positivo che di per sé è facilmente manipolabile. L’uso equivoco del termine legalità può ben agire allora da copertura linguistica al processo di svuotamento dello Stato di diritto perché allo Stato di diritto si possa facilmente sostituire prima il cosiddetto Stato di giustizia e poi un deprecabile quanto illusorio Stato etico.

Per il futurismo, che procede nello stesso tracciato ideale dell’illuminismo, oltre a quanto detto c’è, se vogliamo, un problema addizionale dato che l’emancipazione da pregiudizi e credenze pregressi non si muove in antitesi al mondo moderno. Anzi, il mondo moderno viene esaltato e si esprime una fiducia illimitata nel progresso tecnico e scientifico. Recitava il Manifesto dei pittori futuristi del febbraio 1910: il trionfante progresso delle scienze ha determinato nell’umanità mutamenti tanto profondi, da scavare un abisso fra i docili schiavi del passato e noi liberi, noi sicuri della radiosa magnificenza del futuro. Con il dinamismo, la velocità ed i progressi dell’industria si esaltava, en passant, anche la guerra, da intendersi, secondo il pensiero futurista, come igiene dei popoli ma su ciò la relazione, volendo celebrare il movimento ed evitando ogni sia pur minima occasione di denigrazione, ha preferito, pur facendone cenno, sorvolare discretamente così come al termine della relazione, un’osservazione rivolta alla relatrice circa gli stretti rapporti fra futurismo e fascismo ha provocato una reazione per negarli imprevedibile e stranamente astiosa, forse molto politicamente corretta ma chiusa in fretta e furia con una risposta sommaria, tutto sommato assai opinabile e nemmeno tanto oggettivamente argomentata. Se, tuttavia, si decreta la fine del passato, bollato di passatismo, cioè di pensiero che rifiuta qualsiasi innovazione ed è legato alle tradizioni del tempo antico, e si celebra la velocità del XX secolo viene a determinarsi un’opposizione tra due affermazioni visibilmente fra loro contrastanti, con la prima ad escludere categoricamente la seconda. Dante Alighieri affermava: assolver non si può chi non si pente; / né pentere e volere insieme puossi / per la contradizion che nol consente. Il principio di contraddizione (o di non contraddizione), nella logica formale, assicura infatti come due giudizi  – l’uno a negare ciò che l’altro dichiara – non possano essere veri contemporaneamente. Si vorrà invero ammettere che non abbia senso pensare di bruciare, almeno idealmente, musei e biblioteche in modo da non avere più rapporti con il passato e concentrarsi su di un presente che è frutto generato direttamente ed esclusivamente dal passato. Perché la rivoluzione industriale non è evento di un giorno o, comunque, di breve respiro. Ha richiesto moltissimo tempo per inverarsi. È stato un lungo processo di evoluzione iniziato tra la fine del Settecento e la metà dell’Ottocento. Esso ha portato la società a trasformare un sistema che era agricolo, artigianale o commerciale, con lavori sempre eseguiti dall’uomo e, in via subordinata, dagli animali, in un sistema industriale caratterizzato dall’uso generalizzato di macchine operatrici azionate da energia meccanica e dall’impiego di fonti energetiche prima assolutamente sconosciute e favorito da un’innovazione tecnologica (ad esempio: la nascita della ferrovia) che in genere accompagna i fenomeni di crescita e di sviluppo economico e che, in presenza di confacenti e radicali modificazioni di natura socio-culturale, consente un forse, altrimenti, inimmaginabile incremento della produttività del lavoro. La fabbrica moderna, insomma, al posto della bottega medioevale rappresenta una trasformazione epocale e irreversibile non solo del sistema economico ma dell’intero impianto sociale.

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Il riferimento e il fondamento di queste riflessioni risale, per me, ad una decina di anni fa, quando cercavo di individuare cause e ragioni della più totale dissennatezza ostentata in politica economica dal governo di Bill Clinton nel premere sulle banche per concedere mutui a tutti, inclusi molti immigrati dell’ultima ora, e consentire l’acquisto della casa perché tutti realizzassero in breve tempo il loro sogno americano. Anche qui l’intendimento doveva essere quello di sconfessare gli ottusi confini della tradizione accademica per varare nuovi principi di politica economica, dimenticando con faciloneria l’insegnamento del passato. Robert Rubin, per due volte con Bill Clinton ministro del Tesoro, si fece venire la sventurata idea di ingegneria finanziaria che portò a metà degli anni ’90 alla funesta abolizione del confine tra banca commerciale e banca d’affari. Una monumentale sciocchezza, da sempre chiaramente descritta come tale dalla più autorevole dottrina economica e non sconosciuta nemmeno alle autorità monetarie statunitensi se, con il Glass-Steagall Act del 1933 per la tutela dell’interesse pubblico, avevano regolamentato l’intermediazione bancaria sancendo la separazione fra attività bancaria commerciale e attività bancaria di investimento e, con il Bank Holding Company Act del 1956, avevano impedito all’impresa bancaria persino la gestione di ogni altro tipo di attività economica. Malgrado ciò, l’idea di Robert Rubin subì critiche in misura inversamente proporzionale agli enormi danni che sta ancora causando in tutto il mondo: quasi nessuna. E sorgeva allora, spontanea, una domanda: dov’erano i controllori delle autorità monetarie quando il credito in espansione sembrava non avere più limiti? E i banchieri? E gli economisti? E gli esperti delle agenzie di rating o delle organizzazioni nazionali od internazionali come il Fondo monetario internazionale o la Banca mondiale? E i giornalisti o i politici, i sindacalisti e i magistrati, gli opinionisti, i commentatori vari, i centri studi delle banche o delle tante associazioni culturali? Tutti sempre pronti a tranciare giudizi su qualunque argomento. Nella circostanza tutti zitti. Neppure una minuscola obiezione. Domandava sconsolato The New York Times Sunday Magazine del 2 novembre 2008 a James Kenneth Galbraith (economista statunitense, figlio del famoso economista e diplomatico John Kenneth Galbraith): Ci sono almeno 15 mila economisti professionali in questa nazione e lei sta dicendo che solo due o tre di loro hanno previsto la crisi delle ipoteche? (Geminello Alvi: Il capitalismo. Verso l’ideale cinese, 2011 by Marsilio Editori s.p.a., Venezia, prima edizione ottobre 2011). Ci si poteva inoltre interrogare: tanta incantata saccenteria ed una macroscopica, immodesta presunzione di cambiare il mondo associata ad una devastante superbia che trascura insegnamenti ed esperienze tradizionali è prerogativa del mondo economico oppure caratteristica più generale del mondo attuale? Siccome l’arte riflette la realtà umana o, meglio, addirittura la anticipa, era per me possibile gettare uno sguardo sull’arte contemporanea per verificare l’ipotesi e cercar di capire verso cosa e dove l’uomo si stava dirigendo.

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È stato, così, facile accorgersi che le opere dell’arte moderna ripetono gli identici errori e si nutrono della stessa presunzione fatale, come avrebbe detto Friedrich August von Hayek. Se così stanno le cose è però evidente che il problema non è solo appannaggio del mondo economico ma investe tutto lo scibile ed ogni aspetto della vita umana. Non è difficile trovare esempi di siffatta tendenza nell’ambito della politica, nel campo giudiziario, nella lettura dei giornali e nell’ascolto della radio o della televisione, insomma: nella cronaca quotidiana.

Volendo circoscrivere l’analisi al mondo dell’arte moderna, si può notare come la modernità del ‘900 abbia subito uno sviluppo che, iniziato nella seconda metà dell’800 ed orientato ad abbandonare i principi dell’educazione estetica classica, intenda prevalentemente rivolgersi a schemi legati all’universo della scienza e della tecnica dando vita ad una deriva di tipo meccanicista. Emblematici possono essere considerati i prodotti artistici di Pieter Cornelis Mondriaan che cerca di esprimere un equilibrio di rapporti fra linee geometriche, di composizione fra colori diversi, il rosso, il giallo, il blu o il nero, e di superfici, spesso riprodotte in forme rettangolari.

Deve ammettersi in proposito che l’intento di chiudere il passato porta a concedere amplissimi gradi di libertà. Possono valere e risultare sintomatiche un paio di constatazioni. Marcel Duchamp, famoso, importante ed ascoltato artista del XX secolo ed animatore dell’arte concettuale, è autore dell’orinatoio in ceramica titolato Fontana (1917). L’opera, esposta al Centro Pompidou, qualche anno fa fu, per opera di uno squilibrato, colpita da una proditoria martellata e scheggiata. La direzione del Pompidou promosse causa reclamando giustizia ed il risarcimento dei danni. Il Tribunale non poteva che condannare, ovviamente, il vandalismo ma rifiutò il pagamento dei danni non ritenendo l’orinatoio un’opera d’arte, ma un semplice oggetto concettualizzato (verrebbe banalmente da dire che chi di concetto ferisce di concetto perisce) e la motivazione della sentenza verté sul fatto che un concetto non può subire alcun pregiudizio da una martellata mentre l’oggetto danneggiato resta in ogni caso ciò che è in radice: un articolo molto comune e facilmente reperibile. Usato, lo si può ritrovare presso un qualsiasi rigattiere per pochi soldi. In altri termini, l’opera in sé – ha sentenziato il Tribunale di Parigi – non vale niente. D’altronde, quel che conta nell’arte contemporanea sarebbe il titolo che l’artista dà all’opera. In sintonia con questa massima, l’italiano Piero Manzoni sistemò le proprie feci in 90 barattoli di conserva di circa 30 grammi ciascuno e le mise immodestamente in vendita ad un prezzo pari all’equivalente in oro del loro peso. Si può presumere non sia lecito, per quanto l’opera sia scadente o volgare o addirittura ripugnante, porre limiti all’attività creativa dell’artista. Con sofisticata tecnica di marketing, l’etichettatura del contenitore con la scritta Merda d’artista, contenuto netto gr. 30, conservata al naturale, prodotta ed inscatolata nel maggio 1961 (e già che c’era, avrebbe potuto anche aggiungere: senza coloranti o conservanti come si usa oggi sulle confezioni più all’avanguardia) e le indispensabili traduzioni in inglese (Artist’s shit), francese (Merde d’Artiste) e tedesco (Künstlerscheiße) nonché, sulla parte superiore del barattolo, la segnalazione di un numero progressivo (da 1 a 90, ad impreziosire la limitata tiratura della prestazione) insieme alla firma dell’artista sarebbe volta alla consacrazione dell’impegno.

Potrà sembrare incredibile ma l’esemplare numero 4 è in mostra alla famosa Tate Gallery di Londra; il barattolo numero 12 si trova nel Museo d’Arte contemporanea Donnaregina di Napoli; a Milano nel 2007 un collezionista privato riuscì ad aggiudicarsi presso Sotheby’s, la rinomata casa d’aste internazionale, l’esemplare n. 18 allo strabiliante prezzo di € 124.000. È arte questa?

Ci saranno, persino nell’arte moderna, certamente, opere di vera arte. Comunque sia, il mio personale parere è che, esibendo orinatoi o confezionando feci o proponendo il dito medio alzato  (L.O.V.E. – acronimo di libertà, odio, vendetta, eternità, 2010) di Maurizio Cattelan (che, guarda caso, veleggia nello stesso ambiente di orinatoi e feci), i (presunti) artisti contemporanei finiscano con il rappresentare un pessimo biglietto da visita per l’arte moderna e con il ridicolizzare in buona sostanza gli amatori del bello. Al tempo stesso prendono per i fondelli i loro estimatori, i conservatori dei musei, i collezionisti e i critici d’arte per la superficiale disponibilità loro di attribuire un valore a qualsiasi cosa purché prodotta da un artista. Se il prezzo di ciascun barattolo di Piero Manzoni è attualmente stimato intorno ai 30.000 euro, è evidente come i cosiddetti esperti siano, allineati e coperti, pronti a riverire qualsiasi conclamata imbecillità. È vero: il revisionismo non ha successo né nel mondo della politica progressista né a proposito di arte moderna. Nessuna critica può esserle mossa senza incappare in un sicuro disprezzo, senza sentirsi definire zotico tanghero o ignorante che non sa apprezzare – perché non sarebbe in grado di capire – le supreme vette dell’arte. Nel 2010 Yoko Ono, vedova del Beatle John Lennon, per ricordare il 30.mo anniversario dell’uccisione del marito, aveva aperto a Berlino una mostra e l’opera centrale esposta (Hole) era una semplice lastra di vetro bucata da un proiettile con una targhetta a indispensabile corredo Andate dall’altra parte e guardate attraverso il foro. Immaginare che il visitatore fosse in grado di coglierne il significato – il senso sarebbe quello di riferirsi al punto di vista dell’omicida che, per essere tale, doveva stare dall’altra parte – e indurre una riflessione sulla violenza ha una probabilità talmente scarsa di cogliere nel segno che è praticamente nulla. Ecco: il nulla.

Ripeto il quesito: l’anima di questi lavori sarebbe arte? Perché, se tanto mi dà tanto, l’arte a me sembrerebbe solo una perversa espressione di nient’altro che il nulla. Sui valori artistici esperti ed intellettuali continueranno, com’è loro abitudine, a disquisire all’infinito e fornire forbite ed eleganti dissertazioni. Si può però amaramente concludere replicando come, nel mondo attuale, la perdita del senso del bene e del male, l’assenza di un limite all’etica ed il dissolvimento del buon gusto e della decenza inducano la crisi di una civiltà intera ed uno stato di irreversibile decadenza da marcia fine dell’impero ed il tramonto dell’Occidente. Occorrerà rimuovere ideologia ed ignoranza. Occorrerà, soprattutto, fare in fretta a trovare adeguati rimedi per arrestare l’emorragia e il declino o saranno guai per tutti. Povero Occidente!

© Carlo Callioni 2013