• Mar. Apr 29th, 2025

Carlo Martello

Un blog per ospitare le mie opinioni su politica, economia, storia, e chi più ne ha più ne metta

Economia e politica, un binomio difficile # 2

La valutazione e i rimedi nel tempo presenteCrisi finanziaria e crisi morale nel nostro Paese
 Si è fatto cenno più sopra ad un primo disvalore: la politica per la politica. Il cui potere è concepito in nient’altro che in sé stesso e non è capace di generare altro che sé stesso. Fissata con profonde radici nei secoli passati ed avuto presente il fatto che si manifesta ancor’oggi, nella società italiana esiste una radicale sfiducia nelle istituzioni, nei partiti politici, nelle strutture organizzate che, finanche, va al di là di un legittimo e riconoscibile sospetto di inefficienza della politica. Questa è da sempre immaginata come separata dalla gente, funesta, genericamente collocata ad impedimento ed intralcio della vita individuale non meno che dei rapporti sociali. Si tratterà magari di un pregiudizievole primitivismo ideologico plebeo come qualcuno, non del tutto infondatamente peraltro, pensa ma è pura realtà constatare che il cittadino comune percepisce di non avere strumenti atti a difendersi da una burocrazia invasiva ed inefficiente, da una giustizia farraginosa e tortuosa quando non eccessivamente lenta, da governi sanguisuga che sono capaci solo di tassare e di adottare provvedimenti inutilmente poco pragmatici e, quindi, inevitabilmente propenda per il qualunquismo. Contraddittoriamente, tuttavia, e la contrapposizione è per lo meno curiosa, molti bramano la politica e al politicante è consentito di imporsi ed eccellere al punto che, per avere fortuna nella vita, indipendentemente dalle proprie qualità, è caldamente consigliabile partecipare alla vita attiva di un partito. È un fatto che nel nostro Paese e nel momento attuale l’uomo politico a vita goda di posizioni di sicuro privilegio e usufruisca di una rendita vitalizia intangibile. In Italia a questa scriteriata incongruente tendenza si accoppia una profonda spaccatura della società italiana che su ogni questione – non importa se seria o futile – si trova sempre divisa a metà anche perché, allorquando la politica è disposta a nostro personale vantaggio, il giudizio radicalmente cambia ed è sempre netto e senza troppi ripensamenti. È sempre la stessa storia: sì o no, categoricamente. Guelfi o Ghibellini, Bianchi o Neri, polizia o carabinieri, Coppi o Bartali. Nello sport, ad esempio, gli incontri fra squadre cittadine non sono una festa gioiosa, come dovrebbe essere, ma l’occasione di dispute e di disordini. Appena se ne offre il destro non ci si confronta con un avversario ma ci si trova di fronte ad un nemico. Allo stadio, in un condominio, nella vita civile, nel contrasto politico. Ovunque. Ogni discussione finisce con il diventare una lotta così come non ci si rende conto del fatto, ad esempio, che non possiamo pretendere che le forze dell’ordine combattano l’illegalità nello stesso momento in cui le condanniamo perché cercano di impedire che la legalità venga violata. Non ci sfiora il concetto che la demonizzazione morale dell’avversario toglie lucidità ai propri pensieri, riduce la ragione ad arbitrio; non si avverte che la spaccatura impedisce di fare, di realizzare, di ottenere risultati. Malgrado ciò, ancor’oggi, siffatta propensione tiene tanto spazio nel bagaglio di molti politici che pensano di accreditarsi il favore dei propri sostenitori senza mai, però, proporsi un completo esame di coscienza e si credono indenni da ogni imputabilità per i mali che accadono al Paese. Quando, invece, il loro modo di agire, distogliendo l’attenzione dai veri problemi della politica, impedisce di affrontarli e di risolverli al meglio. Credeva Antonio Gramsci fosse esclusivamente un volgare modo di interpretare la politica: Se si vuole diminuire o annientare l’influsso politico di una personalità o di un partito non si tenta di dimostrare che la loro politica è inetta o nociva, ma che determinate persone sono canaglie. Che non c’è buonafede, che determinate azioni sono interessate (in senso personale e privato). E’ una prova di elementarità del senso politico, di livello ancora basso della vita nazionale. Discorsi bassi e mediocri, purtroppo ampiamente diffusi. C’è da dire che il comportamento di tanti uomini che fanno politica (più che non dei politici di razza), con i loro personalismi, le loro meschinità, le tante ruberie, gli egoismi esibiti senza dignità né pudore, giuochi a favore di una valutazione complessivamente negativa e disperante. Non solo, non è lecito supporre in tempi di crisi come quelli attuali, che le oggettive difficoltà e le reali sofferenze della vita quotidiana possano distogliere gli uomini dal concentrarsi esclusivamente sui propri guai, sulle esigenze individuali, sui problemi del quotidiano per dedicarsi alla cura dei problemi della collettività.

Se il Paese si divide immancabilmente in due e non c’è molto da fare per riuscire a fargli cambiare idea e se gli esseri umani dimenticano i sani principi di comunanza e di fratellanza, il mondo politico è fermamente deciso ad arroccarsi in una sua propria torre d’avorio, ad evitare ogni problema e a non affrontare alcun cambiamento. Con l’avvento del prof. Mario Monti, nulla infatti è mutato anche se egli si vanta di aver salvato l’Italia dal baratro in cui essa stava cadendo. Ai cittadini che delegano i politici si è venuta sostituendo l’immagine dei politici che, ad opera e con la benedizione del Presidente della Repubblica, incaricano i tecnici. Luigi Einaudi diceva: Conoscere per deliberare. Così i tecnici, con tutta la scientificità che la loro alta professionalità comporta e l’impegno del momento richiede, hanno varato la spending review proprio per conoscere, necessaria premessa per poter poi deliberare. Già sul punto si è comunque subito verificato una specie di cortocircuito perché i tecnici hanno dovuto chiamare un altro tecnico a fare il commissario straordinario della spending review ed il nominato Enrico Bondi non ha trovato miglior soluzione che rivolgersi  ai cittadini perché segnalassero gli sprechi e le inefficienze che si dovranno eliminare. La buffa situazione non fa ridere ma piangere. Ci sono, fra l’altro, altri due supertecnici in ballo ed è consolante che siano appena due e non venti o duecento come si potrebbe temere. Il professor Francesco Giavazzi, economista, ha il compito di suggerire al prof. Mario Monti, pure lui economista, analisi e raccomandazioni sul tema dei contributi pubblici alle imprese quando un’impresa che ha bisogno di sostegno è un’impresa perdente e dovrebbe essere non aiutata ma chiusa e sostituita da chi sa promuovere il futuro, esplicita ma insoddisfatta aspirazione dei tecnici. Il professor Giuliano Amato, in soccorso dei giuristi del Quirinale, di Palazzo Madama e di Palazzo Chigi, deve produrre analisi e orientamenti sul finanziamento dei partiti che, c’è da giurarci, mai e poi mai il professor Giuliano Amato si periterà di scomunicare quando basterebbe considerare (e applicare) un non dimenticato referendum popolare dell’aprile 1993 che, con una valanga di voti espressi a favore, del finanziamento aveva chiesto la totale cancellazione. Enrico Bondi, per quanto lo concerne, avrebbe potuto anche sforbiciare in proprio, libero di andare dove riteneva, secondo mandato. Per razionalizzare le spese avrebbe potuto spulciare costi e spese di tante amministrazioni pubbliche, di diversi organismi, di agenzie e soggetti comunque denominati, di enti locali giungendo a mettere le mani persino sulle intoccabili Regioni e nel vasto campo della spesa sanitaria. Non pare che egli abbia potuto dimostrare di aver tagliato la spesa pubblica che rimane stabilmente al di sopra del 50% del PIL. Il punto è che dal deliberare al fare torna in campo nuovamente la politica. Sarà magari politica tecnica e non economica, ma di fare non se ne parla proprio.

Il fenomeno delle revolving doors
 Torna sulla scena anche il mondo delle banche. Esiste un fenomeno che in America chiamano delle revolving doors o porte girevoli. Esso si definisce in tal modo in quanto descrive il movimento che compie un individuo quando, avendo sempre la chance di tornare indietro, da un’attività politica si trasferisce in un’industria per la quale può svolgere attività di lobbying in materie che prima regolava e viceversa, da un’impresa a funzioni statali. È così facile passare through the revolving door between Congress and the lobbying world that, critics say, it’s hard to tell where one job begins and the other ends (Timothy J. Burger, The Lobbying Game: Why the Revolving Door Won’t Close, Time Magazine, Feb. 16, 2006). Il governo può avere interesse a reclutare personale dall’industria, in quanto si garantisce tanto una esperienza specifica nel settore privato quanto un’esplicita cooperazione politica se non dichiarazioni di appoggio ed eventualmente contributi in denaro. A rovescio, l’impresa privata può assicurarsi un filo diretto con il governo o, meglio, con i politici influenti che al governo fanno riferimento, può accedere ad informazioni che non siano solo quelle di dominio comune e pubblicate dai media, può usufruire di politiche e di regolamentazioni favorevoli ed ottenere la concessione di appalti governativi. Tale pratica, d’altra parte, può però sviluppare rapporti di chiaro clientelismo politico o sfociare in ipotesi di aperto conflitto di interessi. Lawrence Summer è una personalità emblematica tanto delle revolving doors che della stretta connessione fra mondo bancario ed universo politico nel mondo moderno. Figlio di due economisti, entrambi professori dell’Università della Pennsylvania e nipote di due premi Nobel per l’economia. Paul Samuelson e Kenneth Arrow (zio l’uno da parte del padre e l’altro da parte della madre), inizialmente frequentò il Massachusetts Institute of Technology. Poi passò ad Harvard dove conseguì il dottorato nel 1992. Lasciò l’università nel 1991 per divenire Chief Economist della Banca Mondiale (1991-1993). Ricoprì diversi ruoli nel Dipartimento del Tesoro al tempo dell’amministrazione Clinton. Dal 1999 al 2001 fu Segretario al Tesoro. Successivamente tornò ad Harvard per divenire Presidente di quell’Università (rimanendo in carica fino al 2006). Nel 2009 il Presidente Obama lo ha nominato Direttore del National Economic Council, incarico abbandonato a fine 2010 per tornare ad Harvard. Un vai e vieni continuo. C’è già stato modo di ricordare i tanti personaggi passati da Goldman Sachs e poi assurti ad importanti cariche pubbliche: Robert Rubin, Tim Geithner e Henry Paulson (presidente e amministratore delegato di Goldman Sachs nel 1999, succedendo a Jon Corzine che, a sua volta, entrò in politica  e fu eletto Governatore del New Jersey), Romano Prodi e Gianni Letta, Mario Draghi e Mario Monti. L’ultimo esempio di revolving doors è fornito da Corrado Passera, per caso amministratore delegato di Banca Intesa San Paolo, per caso ministro per lo sviluppo economico del governo Monti. Jeffrey Miron, docente a Harvard, libertario in politica e liberista in economia, è contrario per partito preso, a qualsiasi intervento dello Stato sul mercato e, in compagnia di molti altri economisti, si è dichiarato fortemente avverso al piano TARP (Troubled Assets Relief Program, approvato dal Congresso il 3 ottobre 2008 al termine della presidenza Bush la cui revisione, a cura di Barack Obama, è stata battezzata Financial Stability Plan) da 700 miliardi di dollari (guarda caso, una ciambella di salvataggio gettata agli istituti di credito, giusto per salvare le banche dai titoli tossici che loro stesse avevano colpevolmente creato) che sarà anche servita a rimettere in carreggiata la finanza americana ma ha, di certo, ridato fiato alla vecchia e immorale pratica dei bonus milionari ai top manager d’Oltre oceano e creato un massiccio abisso nei conti pubblici. È lo statalismo che ha causato la crisi –  dichiara – È inaccettabile che la debbano pagare i contribuenti, la paghino le banche. Grazie alla politica del deficit spending di Barack Obama il debito federale è cresciuto del 50%, il che è servito a ben poco perché, sinora, la crescita economica è, nella migliore delle ipotesi, ancora incerta. Al momento attuale si assiste invece ad una netta ripresa dei prestiti ipotecari americani. Ne è testimonianza l’ottima performance riflessa nei risultati trimestrali di Wells Fargo e JP Morgan, due fra i più potenti istituti del settore, dato che insieme controllano circa il 45% del mercato. Tra giugno e settembre, i profitti legati ai mutui di Wells Fargo sono lievitati del 53%, quelli di JP Morgan del 72%. Inoltre, sebbene ci si trovi ancora parecchio distanti dai livelli massimi raggiunti in passato, le costruzioni di nuove case sono aumentate nello scorso settembre del 15%, il che è indice inconfondibile di un’indubbia vivacità. Ben Bernanke, Presidente della Federal Reserve, ha annunciato l’acquisto di cartolarizzazioni di mutui per 40 miliardi di dollari con il fine di fornire un incentivo alle banche a erogare più prestiti e per tale via tonificare una ripresa che, a dispetto dei pungoli già attivati dalla politica, si mantiene, come detto, purtroppo debole. Ma l’iniziativa della Fed rischia di provocare o di ampliare la portata di quell’incognita scellerata di moral hazard che si è già più sopra richiamata. La copertura da parte della banca centrale americana, infatti, può ricreare quelle spiacevoli condizioni già conosciute in precedenza: offrire i mutui immobiliari a chi non è solvibile dando vita ad una nuova edizione, insomma, dei famigerati subprimes. Dopo gli immensi danni provocati dalla crisi esplosa nel 2007 a causa loro sarebbe la manifestazione di una criminale incoscienza. Da indiscrezioni trapelate, sembrerebbe tuttavia che alcune banche Usa starebbero già operando in tal senso. La benedizione delle autorità americane ad un tentativo del genere sarebbe da interdizione. Anche perché, per contro, è salito alle stelle il debito pubblico USA. Ciononostante il Presidente americano, il suo ministro del Tesoro, Tim Geithner e il citato Ben Bernanke, hanno all’unisono dichiarato che La crisi del debito europeo è una minaccia per gli Stati Uniti. Ciò è falso e deviante perché sono i problemi interni del Paese a preoccupare infinitamente di più: il debito federale complessivo che tocca l’astronomica cifra di 162mila miliardi di dollari, pari al 140% del PIL e, soprattutto, i contrasti sul fiscal cliff, se non si troverà, tassativamente prima della fine dell’anno (e non manca molto), un punto d’incontro sui tagli automatici di spesa e sull’aumento delle imposte che scatteranno con il prossimo primo gennaio, hanno buone probabilità di condannare l’economia USA alla recessione. Oggi la gente sta male, in America come in Europa, e il bello è che le banche, sovvenzionate in fin dei conti da chi realmente soffre, ricominciano a macinare utili da record.

© Carlo Callioni 2012

[continua …]