• Mar. Apr 29th, 2025

Carlo Martello

Un blog per ospitare le mie opinioni su politica, economia, storia, e chi più ne ha più ne metta

Dalla FIAT all’ ILVA: fatti e misfatti del sindacalesimo giudiziario italiano

FiatFiat

La sentenza di condanna della FIAT da parte del tribunale di Roma all’assunzione di 145 dipendenti tesserati con la FIOM è per più versi eccezionale. Non è possibile proporre qui, per evidente mancanza di elementi di giudizio sufficienti, un commento critico della sentenza. È ragionevole unicamente avanzare qualche considerazione di carattere generale.

Ma occorre, al proposito e in via preliminare, fare un paio di premesse. Sergio Romano sul Corriere della Sera del 27 agosto 2010 esprimeva il suo pensiero sulle vicende FIAT constatando il radicale cambiamento del suo mondo dopo l’acquisizione della Chrysler americana. Ricordato come questa avesse nel 2008 cercato, invero senza molto successo, di uscire da una situazione fallimentare a causa del crollo dell’industria automobilistica negli Stati Uniti indotto da quella crisi finanziaria ed industriale del Paese che ancora oggi, a dire il vero, non é stata completamente risolta, egli ammetteva che, a fronte di una così poco confortante prospettiva, il coraggioso intervento in Chrysler della società italiana nel 2009 avesse guidato l’azienda verso quel profondo risanamento che l’ha riportata nel giro di un paio d’anni a produrre nuovamente utili di gestione. L’accoppiata Chrysler Group LCC e FIAT ha sviluppato in altri termini una strategia globale vincente ed ha consentito alla nuova FIAT s.p.a., socia inizialmente al 20%, di ampliare progressivamente la sua partecipazione ottenendo nel luglio 2011 il controllo di comando della società con il 53,50% del capitale sino all’attuale 58,50% (ma la quota è in procinto di salire di un altro 3,30% passando dal 58,50% al 61,80%) che é il prestigioso risultato conseguito da Sergio Marchionne, amministratore delegato di FIAT s.p.a. e presidente e amministratore delegato di Chrysler Group LLC, in virtù del raggiungimento degli obiettivi industriali a suo tempo programmati e del preconcordato scambio di know how e di tecnologia posseduti dall’azienda italiana. Occorre dire, al proposito che il brillante risultato non sarebbe stato probabilmente possibile senza il concorso ed il supporto dei governi americano e canadese e dei sindacati di quei due Paesi che non hanno paura di difendere le imprese. Sergio Romano sintetizzava gli avvenimenti che hanno dato vita al sesto gruppo automobilistico mondiale in tre punti qualificanti:

· l’impegno della FIAT in un progetto rischioso ma credibile

· l’apprezzamento del governo degli Stati Uniti per l’iniziativa (Barack Obama, presidente degli Stati Uniti, aveva visitato Detroit e ringraziato pubblicamente Sergio Marchionne. L’attestato di stima era stato poi sintomaticamente ripetuto qualche settimana dopo in uno stabilimento dell’Ohio da Joseph Biden, vicepresidente degli Stati Uniti)

·  la scommessa (a sostegno) sul futuro dell’azienda operata dai sindacati americani.

Ciò che capita alla FIAT oggi in Italia mette in risalto una verità affatto diversa:

· un impegno della società in un momento rischioso ma, soprattutto, imprevedibile

· una sentenza del giudice assai pesante per il futuro della società in un Paese che si trova in sempre maggiori difficoltà perché tutto il mondo è in profonda crisi e i provvedimenti di politica economica adottati nel nostro Paese inducono una crescente recessione

·  una dichiarata ostilità di almeno una parte del mondo sindacale (di quel 37% circa di lavoratori che nei rapporti FIAT/FIOM e relativamente al referendum promosso dalla società hanno appoggiato la FIOM/CGIL nella sua scommessa contro FIAT).

Molto interessante sul merito della questione l’articolo di Pietro Ichinodocente universitario in diritto del lavoro, avvocato, giornalista pubblicista, senatore del Partito Democratico, sul Corriere della Sera del 7 ottobre 2010, articolo nel quale il prof. Ichino fa un chiaro riferimento sia alla questione del contrasto FIAT/FIOM per lo stabilimento di Pomigliano d’Arco che ad un’aggressione capitata il giorno prima (6 ottobre 2010) contro la CISL, firmataria con la UIL dell’accordo che si ispirerebbe secondo la FIOM ad una palese violazione di legge. Il professore non giunge alla stessa conclusione del sindacato. Sostiene, al contrario, che la FIOM non avrebbe addotto, per motivare il rifiuto dell’accordo, argomentazioni tipicamente e propriamente sindacali bensì presunte violazioni della legge (clausole per contrastare ingiustificati fenomeni di assenteismo e scioperi volti ad impedire l’attuazione dell’accordo) che, però, non reggono sul piano giuridico. La verità è – ritiene il prof. Ichino – che l’accordo di Pomigliano non presenta alcun attrito con la legge. Aggiunge: é facile mobilitare l’opinione pubblica per difendere la legge, e ancor più per difendere la Costituzione, é invece molto più difficile mobilitarla per difendere la rigida inderogabilità di un contratto collettivo nazionale.

Osteggiare il fenomeno dei falsi malati dovrebbe essere impegno di semplice buon senso persino per gli stessi sindacati. Per non dire dei giudici. Giusto un esempio fra i tanti: il 9 febbraio 2012, con una velocità davvero sorprendente per la giustizia italiana, il tribunale del lavoro di Torino ha dichiarato illegittimo il licenziamento di un tale e, grazie all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, lo ha reintegrato benché l’interessato – era il settembre del 2010 – fosse stato immortalato da alcune riprese televisive in un gruppo di contestatori del segretario generale della CISL alla festa dell’Unità di Torino. Raffaele Bonanni fu allora persino colpito da un fumogeno (lanciato, si disse, dalla figlia di un magistrato). Non sarebbe successo nulla se non fosse per la circostanza che quel signore, per sua sfortuna, nel giorno incriminato risultava in malattia e l’azienda, ritenendo malattia e contestazione in piazza fatti fra loro incompatibili per la correttezza del rapporto di lavoro, lo aveva licenziato. A mente del citato art. 18 perché fosse illegittimo e tale da comportare il reintegro, il licenziamento intimato, nella valutazione del giudice, doveva necessariamente essere senza giusta causa o giustificato motivo. Ma è veramente così? Dichiararsi malati quando non è vero è una bugia e le bugie rientrano nella casistica dei comportamenti infantili che intendono negare una realtà altrimenti imbarazzante se non, magari, inconfessabile. Addirittura, quando  la bugia è patologica, essa diviene il sintomo di un vero disagio psichico. Che sia frequentemente negata da chi ne soffre è comprensibile anche se affatto giustificabile. Che sia protetta dal sindacato è intuitivamente grave, senza giustificabili attenuanti. Se, in più, la comprensione viene garantita da una sentenza del giudice lo è un po’ di più, con manifeste aggravanti. Senza giusta causa? Imbrogliare l’azienda o il sistema previdenziale sradica il principio della fiducia che è l’affidamento che si fa sulla persona ed è presidio regolatore di ogni rapporto umano così come, in particolare, del rapporto di lavoro. L’intuitus personae caratterizza i c.d. contratti personali, fondati appunto su un elemento di fiducia personale, ed è termine giuridico ricorrente proprio per indicare il carattere personale di una data prestazione, l’elemento fiduciario su cui riposa un determinato rapporto obbligatorio in un Paese civile in cui non viga la legge della giungla. Senza giustificato motivo? Porre falsamente a carico dell’azienda o della Sanità nazionale oneri fasulli significa estorcere con l’inganno sia una retribuzione che un’assistenza medica ed un sostegno sociale non dovuti, con tutte le conseguenze, morali ed economiche, del caso. Viene alla mente l’identico provvedimento assunto dai giudici in relazione a quei dipendenti dell’aeroporto di Milano Malpensa che, allegramente, ripulivano le valigie dei passeggeri del loro contenuto. C’era stato, allora, uno scollamento fra sostanza (le riprese televisive dell’aeroporto che inequivocabilmente confermavano i furti) e forma (l’art. 4 dello statuto dei lavoratori secondo il quale é vietato l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori). Sostanza è ciò che è in se stessa e che non dipende da un’altra cosa perché se dipendesse da un’altra cosa non sarebbe più sostanza. In altri termini, il furto è furto in se stesso, indipendentemente dal metodo di prova che si impiega per rilevarlo. Questo sarà anche contro legge e potrà, perfino, essere sanzionabile ma non ha senso, né morale né civile, che esso venga penalizzato in modo peggiore del furto, anzi che il furto venga assolto da ogni addebito e premiato con la riassunzione ed il controllo punito e beffato, salvo accettare un decadimento della vita sociale in comune fra gli uomini. Si potrà obiettare che la legge è legge – e l’art. 4 di cui si parla è indiscutibilmente legge – e che, come tale, deve essere categoricamente osservato. Tuttavia non è lecito supporre che una norma, solo perché codificata in legge, debba assiomaticamente e necessariamente rivelarsi una norma perfetta. Potrà essere giusta o sbagliata come è normale che sia a questo mondo dove tutto semmai potrebbe rivelarsi perfettibile. In ogni caso, non potrebbe certo nemmeno escludersi l’eventualità esistano norme scadenti, chissà, norme persino ingiuste. Verrebbe da opinare, al proposito, come due diversi fenomeni che pur non si differenziano dal punto di vista delle cose concrete vengano di fatto trattati in modo differente: il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori gode della protezione assoluta fornita dal citato art. 4; il controllo a distanza delle utenze telefoniche, ossia le c.d. intercettazioni telefoniche, scatenano violente polemiche ma sono pressoché prive di un’efficace protezione legale. Verrebbe in mente, a questo punto, di immaginare qualcuno protetto da una legge ad personam  (i lavoratori sì, i cittadini no) che fa tanto scalpore se favorisce chi non ci piace o è a noi avverso ma che, come un faro che fa luce ad intermittenza, si dimentica volentieri in altre occasioni. È il frutto perverso di un eccessivo formalismo di principi. Sembrano le argomentazioni di Vilfredo Pareto sulle azioni da lui definite alogiche, che si sottraggono cioè alla logica pur sembrando logiche. Richiamano alla mente le distinzioni puramente verbali del don Ferrante, il celebre erudito del ‘600 canzonato dal Manzoni nei Promessi sposi, il quale, sull’assunto che in natura tutto sia o sostanza o accidente e nella supposizione che il contagio non potesse essere né l’una cosa né l’altra, pretendeva di trasferire la verità insita nelle sue premesse alla conclusione dell’inesistenza della peste. Con una convinta concatenazione solo formalmente impeccabile (tanto che lui di peste ci sarebbe poi morto) che la logica si riserva di usare non tanto per capire la verità quanto per evidenziare i nessi tra le verità (o non verità) richiamate. Il sillogismo in sé e per sé non può essere infatti né vero né falso; può solo essere coerente o incoerente. Dipende dalla bontà delle premesse perché proprietà del sillogismo è il trasferimento della verità eventualmente insita nelle premesse alla conclusione. Quando si fonda su presupposti inconsistenti il sillogismo può non essere affatto sbagliato. Solo é sicuramente insensato.

La sentenza di Roma, pronunciandosi sulla vertenza FIAT/FIOM, fa riferimento a dati di carattere statistico. Già il 4.comma dell’art. 28 del decreto legislativo 1 settembre 2011 n. 150, consentendo di desumere elementi di fatto … anche da dati di carattere statistico, stabilisce un precedente alquanto dubbio dato che la misura probabilistica di un fenomeno contraddice l’esigenza profonda della giustizia che pretende certezza, non probabilità. Ma anche ammettendo, non senza le citate perplessità, il dato statistico, non si può supporre che il Legislatore abbia inteso usare la scienza statistica in modo scorretto. La sentenza, invece, testualmente recita: Il riferimento normativo … nell’ambito di realtà di dimensioni contenute in cui non sarebbe neppure in astratto possibile raggiungere l’ordine di grandezze omogenee necessarie per fondare un’idonea dimostrazione di carattere statistico, impone di ritenere che detto riferimento alla statistica debba essere inteso nella sua accezione meno tecnica e più comune di probabilità, a prescindere da un rigido rigorismo scientifico (pag. 21). L’argomentazione sgomenta perché è un impiego della statistica come potrebbe essere fatto dalla casalinga di Voghera, dotata di tradizionale buon senso pratico ma di ridotto grado di istruzione e, soprattutto, con responsabilità strettamente circoscritte al proprio ambito familiare. Il livello, come dire, è del tipo, secondo l’abusata classica battuta, che se in due si è mangiato un pollo è probabile che se ne sia mangiato mezzo a testa.  Come d’altronde lasciava trasparire in una delle sue tante favole moraleggianti il mitico Trilussa (da li conti che se fanno / seconno le statistiche d’adesso / risurta che te tocca un pollo all’anno: / e, se nun entra nelle spese tue, / t’entra ne la statistica lo stesso / perch’è c’è un antro che ne magna due). Ora, il non sarebbe neppure in astratto possibile raggiungere l’ordine di grandezze omogenee necessarie per fondare un’idonea dimostrazione di carattere statistico, se deve avere un senso, dovrebbe anche per il giudice significare che non è il caso di parlare di dimostrazione statistica. Prescindere da corrette regole metodologiche, spiace dirlo, non è ottuso (rigidorigorismo scientifico come viene sostenuto in sentenza ma necessario presupposto di comprensione dei fenomeni osservati. Nelle condizioni ipotizzate nel verdetto l’apporto della scienza statistica è totalmente nullo il che rende inaccettabili le deduzioni operate sul preambolo statistico. Si sarebbe potuto o dovuto far ricorso ad altri principi, a diverse regole, a ragionamenti differenti. Da premesse almeno ingannevoli se non propriamente false, che vogliono essere scientifiche ma si dichiarano e si rivelano assolutamente non scientifiche, mai si potrà pervenire ad una tesi oggettivamente valida. Né vale la giustificazione addotta (… la legge dei grandi numeri … non può … richiamarsi in materia di procedimento antidiscriminatorio, se non al prezzo di vanificare sostanzialmente la norma …, pag. 21) che è utile, semmai, a ribadirne il rifiuto e comunque non chiarisce la logica che sta alla base della decisione. Pare una excusatio non petita, e pertanto una accusatio manifesta, ed è espressione contraddittoria dato che riconosce un principio fondante dell’indagine statistica per immediatamente rinnegarlo. L’ordine di grandezze omogenee (perché poi omogenee?) è già sopra richiamato e citare la legge dei grandi numeri, o legge empirica del caso, è un ammonimento che sfoggia cultura ma non aggiunge niente al discorso. Quella legge indica solo che con l’aumentare del numero di prove effettuate nelle stesse identiche (omogenee?) condizioni (ad es.: lanci casuali di una moneta), la frequenza di accadimento di un certo fenomeno tende alla sua probabilità o che, in altre parole, la media sperimentale tende alla media teorica. Sarebbe, fra l’altro, almeno stridente ed incongruo, da un lato, stigmatizzare con severità un rigido rigorismo scientifico per poi porre a fondamento della propria decisione avvenimenti non supportati dal crisma della verità e voluti da una legge forse almeno da ripensare. Significherebbe esporre le proprie argomentazioni ad una critica uguale e contraria ma molto più fondata. Il problema interpretativo che si pone al giudice è di riempire di sostanza l’eventualmente generica formula adottata dal Legislatore. Quando la Legge richiama dati di carattere statistico forse intende riferirsi a fatti certi o a ipotesi operative diversi da quelli che si ritrovano nella vertenza in esame. In ogni caso, comunque, non si può prescindere dal riconoscere che le conclusioni statistiche, ancorché vengano assunte in una legge, siano intrinsecamente accompagnate da un certo grado di incertezza, il che – mi si scusi il bisticcio di parole – è un fatto certo e non un’ipotetica probabilità. La funzione del magistrato nel diritto moderno, a ben vedere, è strettamente vincolata alla legge. Interpretare è per il giudice accertare il significato della norma per poter decidere di conseguenza. Ciò ha carattere ricognitivo ma non può avere natura creativa. Altrimenti, per quanto sia essenziale che l’interpretazione possa superare il significato letterale della disposizione per ampliarlo (minus dixit quam voluit) o ridurlo (plus dixit quam voluit), sempre ed unicamente al solo precipuo scopo di farlo collimare con il reale pensiero del Legislatore, la sua attività porterebbe ogni volta alla formulazione di nuove leggi. Ciò che viene in evidenza é quel formalismo giuridico, quel risolvere il giudizio in termini di processo, quel rigetto della responsabilità del giudizio sulla norma, quella forma che prevale sulla sostanza che segna il distacco del processo dal diritto come sosteneva Salvatore Satta nel suo famosissimo Corso di diritto processuale civile (CEDAM Padova, 1967) e si fa dipendere la soluzione da posizioni formali e concettuali.

Massimo Bornengo e Antonio M. Orazi, esperti di materie sindacali, sono autori del libro L’art. 18: la reintegrazione al lavoro. Storie di vita aziendale … e la riforma?, edito da Esculapio di Bologna. Il volume richiama e ripercorre decisioni quantomeno sconcertanti. Di fronte al caso di un infermiere di un reparto psichiatrico che, dopo aver gettato per terra un paziente affetto da gravissima insufficienza mentale, lo ha preso a calci al torace e allo stomaco, la decisione del giudice ha contemplato il reintegro nel posto di lavoro perché si è trattato di un fatto isolato ed eccezionale in relazione a un paziente particolare (sic!). Per il dipendente che molesta due compagne di lavoro la reintegrazione trova giustificazione nel fatto che il provvedimento è sproporzionato (sic!). Se il lavoratore, in assenza per malattia, ha un altro impiego può venire reintegrato poiché si ritiene che nessun danno ha arrecato al datore di lavoro (sic!), anzi, a contrariis, che l’attività svolta ha accelerato la sua guarigione (sic!). Il potere di reintegro nelle mani dei giudici può condurre a soluzioni financo aberranti com’è il caso di quel lavapiatti egiziano assunto da un ristorante a termine nel 2010 con un periodo di prova di 30 giorni. Dopo il primo giorno il ristorante interrompe la collaborazione. Nessuna norma lo obbliga a chiarire perché la prova non va a buon fine. Il tribunale di Milano – entro il 2011, con provvedimento assunto con velocità inusuale per la giustizia italiana – impone il risarcimento di 14.200 € (per un giorno!) e di riassumere il lavoratore a tempo indeterminato, malgrado l’accordo tra le parti fosse, come detto, a termine, sei mesi da luglio a dicembre. Nelle motivazioni del provvedimento si legge che una sola giornata non è sufficiente per valutare le capacità del lavoratore (sic!).

Pare di intravedere nelle ormai tante decisioni della magistratura in tema di lavoro una certa qual insistita benevolenza nei confronti dei sindacati e dei lavoratori la cui tutela passa a volte attraverso motivazioni parecchio ardite. Senza porsi il problema delle conseguenze che dalle sentenze possono scaturire. Un esempio illuminante: nel settembre 2011 lo Stato, selezionando le richieste avanzate da vari enti e associazioni, aveva autorizzato diciottomila assunzioni di giovani. I motivi della bocciatura della domanda di un pakistano che risiede in Italia da quando aveva tre anni ed aspirava all’assunzione erano inequivocabili: la legge che regola il servizio civile (di questo trattava la selezione) stabilisce quale requisito fondamentale il possesso della cittadinanza italiana. Il magistrato del lavoro, interpellato contro l’esclusione dal reclutamento, aveva accolto il ricorso del pakistano ritenendo che anche colui che non ha la cittadinanza italiana avesse il diritto di lavorare e, quindi, di svolgere il servizio civile in Italia. In definitiva, anche nell’ipotesi il giudice avesse correttamente interpretato la norma (ma è assai difficile, per non dire impossibile, che sia così, letto il semplice ed inequivocabile lessico della disposizione), il risultato pratico è che l’intero bando del 2012 ha dovuto annullarsi e dovrà essere riproposto e che diciottomila giovani che avrebbero potuto iniziare un lavoro si ritrovano inopinatamente a spasso. Il giudice poteva magari essere animato da un sentimento più che lodevole ma, senza voli pindarici, anche dalla più banale lettura del precetto non poteva sortire un’interpretazione così singolare. Soprattutto, con un minimo di prudenza ed un pizzico di riflessione si sarebbe potuto evitare un danno rilevante per tante persone. È appena il caso inoltre di sottolineare che, quand’anche la riserva a favore dei cittadini italiani fosse sbagliata, non starebbe certo al potere giudiziario il diritto di varare una modifica normativa che dovrebbe semmai essere competenza propria del potere legislativo.

È sacrosanto preoccuparsi della più che legittima difesa dei diritti dei lavoratori ma il punto essenziale è un altro. Il lavoro sparisce, cessa, si dissolve nel momento stesso in cui l’impresa svapora, chiude, fallisce. In altri termini, il lavoro non si crea e non si mantiene da solo né, certo, possono essere il sindacato o il governo o chicchessia in grado di sostituirsi all’impresa per procacciare lavoro. Quando mai! Senza il riconoscimento di tale elementare verità ogni ragionamento si fonda unicamente su di un odioso pregiudizio nei confronti del datore di lavoro. Sulla vertenza FIAT/FIOM si intrattiene su L’Unità (22 giugno 2012) Rinaldo Gianola che retoricamente si domanda: Si può gestire di un’impresa contro un sindacato con un secolo di vita e contro una parte dell’opinione pubblica, entrando e uscendo dai tribunali? La risposta è scontata: NO! É evidente che non si potrà sempre bivaccare nelle aule di giustizia. La conclusione logica cui necessariamente si deve pervenire – anche se non è tratta dall’articolista – è che, se questo è il clima di opinioni corrente, in Italia mai si potrà fare impresa. Paolo Griseri su Repubblica (21 giugno 2012) è al riguardo addirittura più categorico. Pensando alla FIAT afferma: Così si trattavano i dissidenti nei paesi dell’Est e, oggi, in Cina. Senza accorgersi dell’implicito e comico riferimento ai Paesi del socialismo reale (c.d. Paradiso dei lavoratori) di probabile suo personale ed implicito gradimento ed augurandosi un lento ritorno a relazioni industriali non da curva sud, in cui i lavoratori sono liberi di scegliersi il sindacato che li rappresenta in fabbrica e i sindacati sono obbligati a rispettare gli accordi approvati dalla maggioranza dei lavoratori, anche qui senza curarsi del sottinteso e ridicolo nesso che intercorre fra una sentenza che disattende accordi liberamente concordati oltre all’esito di un referendum votato dalla maggioranza dei lavoratori ed un sindacato (la FIOM) che non accetta le deliberazioni referendarie al punto da promuovere la causa di Roma.
Il tribunale romano, oltre a prevaricare le scelte aziendali, finisce con il discriminare tutti i lavoratori che non appartengono alla FIOM che, vale sottolinearlo, rifiutando l’accordo, si era volontariamente sottratta al confronto. La sentenza lascia irrisolti diversi punti. In primo luogo: Non è oggettivamente possibile identificare nominativamente i soggetti lesi, in quanto non è possibile individuare quali dei 382 iscritti sia da ricomprendersi in detta quota percentuale, a fronte dell’innegabile discrezionalità del datore di lavoro nella selezione del personale, una volta garantito il rispetto delle norme di tutela antidiscriminatoria (pag. 17). È manifesto il fatto che de minimis non curat praetor nel senso che l’ordinamento giuridico non prende giustamente in considerazione aspetti considerati secondari o irrilevanti. Ma se dovranno essere riassunti sarà necessario prima o poi identificarli ed in tale evenienza è davvero un’inezia di poco conto selezionare coloro che dovranno essere reintegrati e scartare chi no? Se non li individua il giudice chi lo dovrà fare? E con quali criteri: di esperienza, di capacità, di specialità o solo di appartenenza o, banalmente per estrazione a sorte, magari mutuando dalla statistica un algoritmo generatore di numeri casuali che si presti a risolvere asetticamente il caso? Ed è lecito che il giudice deleghi il compito non si capisce bene a chi (alla FIOM? agli iscritti alla FIOM? ad altri soggetti innominati?) o si riservi di pronunciare una non ammissibile sentenza bis o di promuovere un inverosimile separato giudizio per la sola messa in esecuzione della sentenza? La FIAT aveva da tempo proposto, alla luce del sole, un nuovo contratto che tutte le altre organizzazioni sindacali avevano accettato e che solo la FIOM aveva sdegnosamente rifiutato. L’intesa era stata sottoscritta dalle parti contraenti non al bar Sport sotto casa ma presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. I lavoratori avevano ratificato il progetto con larga maggioranza. Se l’accordo fosse stato contrario a norme di legge o ad insuperabili principi costituzionali o se l’intervento del Ministero fosse stata una sceneggiata buona per una puntata di Scherzi a parte sarebbe stato, da subito, un episodio di talmente lampante evidenza che non sarebbe stato nemmeno necessario promuovere una vertenza per accertare un fatto che non era mai stato in discussione. Se non è successo, ciò significa che fosse pacifico il riconoscimento: la rinuncia e l’autoesclusione di FIOM avrebbe condotto automaticamente alla estromissione dei suoi aderenti. Oppure gli accordi con l’impresa sono sciocchezze da tenere in non cale e solo le pretese della FIOM devono essere salvaguardate? Ha riflettuto il giudice al fatto che FIOM, rifiutando l’intesa, aveva insistito per negare validità al contratto basato sulla produttività che le veniva proposto? Visto che la sentenza non mi pare ne parli, si può supporre di no. Ma allora, la riassunzione dei 145 suoi aderenti – per principio, FIOM richiedeva per loro il mantenimento del vecchio contratto collettivo – dovrà avvenire con il nuovo contratto FIAT o con il vecchio contratto gradito da FIOM? Qualora fosse corretta la prima ipotesi si potrebbe ripetere con Luigi Pirandello molto rumore per nulla salvo considerare severamente le ripercussioni di una sentenza che sarebbe stata costruita sul nulla. Se dovesse prevalere la seconda ipotesi, davvero, con due tipi di contratto – uno che riguarda i 2.071 già assunti, i quali sono impegnati per turni a rotazione e al rispetto di precise responsabilità; un secondo per i 145 addetti che godrebbero di un diverso sistema di turni e di un regolamento che consente assenteismi opportunistici – si vorrebbe salvaguardare la dignità dei lavoratori e garantire l’efficienza dello stabilimento? O di questo si accelererebbe la fine? In dialetto lombardo efficacemente si usa l’espressione rebelot. Sarebbe un vero e proprio rebelot. La riassunzione di 145 dipendenti vuol poi dire che FIAT dovrà escluderne 145 già assunti? Se sì, la discriminazione avverrà a carico di questi ultimi, con la benedizione del giudice, tanto preoccupata di evitarla. Se no, si dovrà parlare di un vero e proprio imponibile di manodopera ed é lecito porsi il quesito di chi sarà chiamato a pagare. Per il magistrato, pare ovvio, a pagare il conto dovrà essere FIAT, responsabile di aver dato spazio ad un regime discriminatorio. Anche immaginando che il provvedimento adottato sia perfetto quanto ad applicazione della legge, in fabbrica si creeranno le premesse per un inevitabile disordine organizzativo con due contratti di lavoro in grado di minare e condizionare la produttività. Alcuni (i 2.071 assunti) hanno potuto usufruire di un processo di addestramento e formazione reso necessario dall’introduzione di nuovi sistemi e tecnologie di produzione ad elevato tasso di automazione ed informatizzazione (pag. 10) che agli altri (i 145) il tribunale non accredita. Con una superata visione di sapore ottocentesco trascura l’importanza di una specificità professionale, anzi, in pratica, pacatamente la disconosce: trattasi quasi esclusivamente di operai addetti alla produzione, essendo appunto quasi tutti inquadrati nel III e IV livello (pag. 24) e più oltre: per quanto concerne la spiccata professionalità deve pur sempre rammentarsi che si parla di operai di III e IV livello (pag. 25) o ancora: operai, ossia maestranze con compiti meramente esecutivi (pag. 27). Il mondo é sempre più evoluto e sofisticato e richiede veri specialisti per ogni tipo di occupazione e non solo, come un tempo ormai irreversibilmente superato, brutale forza lavoro. In aggiunta, un 7% in più di manodopera non potrà che rendere più pericoloso il trend negativo del settore auto che riguarda pesantemente anche la FIAT (fatturato nel 2012 sinora a meno 30% circa) malgrado non salvi dal tracollo nemmeno quasi tutte le altre Case, trend che, per essere esatti, al momento della sentenza (21 giugno 2012) era ben conosciuto ed era un fenomeno da tempo esistente e da tenere in considerazione. È notizia de Il Sole/24 Ore del 12 luglio 2012 l’annuncio del gruppo francese PSA Peugeot Citroen di chiudere entro il 2014 la fabbrica di Aulnay, alle porte di Parigi, e di ridurre l’organico in quella di Rennes, per il taglio all’organico in Francia complessivamente di 8mila posti di lavoro. Il comunicato della società, come riferisce il quotidiano economico che ha dato la notizia, peraltro rilanciata da tutti i media, parla di riduzione duratura dell’attività in Europa. Riferisce il giornale: nei primi sei mesi del 2012 la divisione auto – con i marchi Peugeot e Citroen – ha perso 700 milioni di euro. Il presidente socialista François Hollande, a due mesi dalle elezioni, teme un possibile impatto sulla recessione e sulla sua immagine e il Governo francese ha immediatamente fatto sapere che non accetta il piano e che valuterà se le misure annunciate sono necessarie e proporzionate alle difficoltà. È d’uopo al proposito una riflessione. Finché l’economia va bene i sindacalisti, con i giudici ed i politici eventualmente di contorno, hanno ampio campo di intervento per indirizzarne l’andamento e possono gestire con magnanimità un grande potere al fine di realizzare quella presunta giustizia redistributiva che sta loro a cuore. Quando gli affari camminano speditamente gli utili consentono sufficienti margini di manovra con cui smussare le linee di contrasto che finiscono con il presentare una traiettoria di resistenza decisamente minore. Ma in una situazione economica generale come quella attuale dell’Occidente, in fase di stallo se non di diffusa recessione, dove le prospettive non sono di crescita ma, piuttosto, di chiusura delle attività, di ricorso alla mobilità o, nel migliore dei casi, di rifugio negli ammortizzatori sociali, la musica cambia radicalmente. In linea di principio la redistribuzione, già di per sé, non è un’opera pia, anche quando si agghinda per sembrarlo, ma piuttosto una sottrazione con destrezza: toglie a qualcuno per dare a qualcun altro perché un qualche ispirato ha pensato che sia giusto. Ma quando l’economia smette di produrre ricchezza, quando le imprese producono solo perdite, tutti coloro i quali si arrogano il diritto di intervenire nel mondo delle imprese vengono allo scoperto e si scontrano con una impietosa realtà. Se non si vende o se i costi superano i ricavi, il meccanismo virtuoso si arresta. In tal caso, il giudice italiano potrà anche penalizzare la FIAT o il politico francese prospettare miracolosi provvedimenti risanatori: tutto ciò sarà destinato, se non vuol procurare ulteriori danni, a rimanere, desolatamente, sulla carta. La gravità della situazione deve essere ben compresa e non ha senso continuare a recitare un coro di litanie perché espedienti e sanzioni siano eventualmente ancora più drastici. É compito del Governo chiedere alla Fiat un cambiamento di rotta sul piano delle relazioni sindacali e verificare le prospettive industriali del programma Fabbrica Italia e degli investimenti promessi, fino ad oggi quasi fermi afferma il responsabile economico del Partito Democratico Stefano Fassina (Repubblica, 21 giugno 2012) mentre il segretario della FIOM Maurizio Landini invoca l’intervento del Governo per garantire il futuro occupazionale della Fiat perché non solo non rispetta le leggi ma non fa nessuno degli investimenti che aveva promesso (Repubblica, 21 giugno 2012).

Di che diamine si sta parlando? È notorio l’apprezzamento in America per quanto FIAT ha fatto in favore di Chrysler. La Serbia è ben contenta che la 500L, originariamente  destinata a Mirafiori, si sia invece imbarcata per il Paese balcanico. Con identici soddisfacenti presupposti la linea di montaggio della nuova Lancia Ypsilon è andata a finire in Polonia. Proprio in questi giorni la FIAT ha annunciato che a Changsha, nella Cina meridionale, con il socio Guangzhou Automobile Group, sesto produttore automobilistico cinese, si apre il nuovo stabilimento, di 730mila mq, per produrre la Fiat Viaggio. Investimento di 5 miliardi di yuan (circa 641 milioni di €). Sarebbe il caso di domandarsi, a fronte di così soddisfatte constatazioni, perché in Italia la realtà sia invece diversa. Nessuno si è inoltre mai chiesto cosa comporta ciò che nello stesso articolo de Il Sole/24 Ore sopra richiamato l’articolista dichiara, cioè a dire che in Europa si sta registrando una riduzione duratura dell’attività e che il gruppo FIAT presenta in Italia, rispetto alle fabbriche francesi della PSA, un inferiore utilizzo della capacità produttiva? Da noi si può condannare la FIAT per comportamento discriminatorio o chiedere al Governo di imporle un cambiamento di rotta. Si può generalizzare asserendo che FIAT non rispetta le leggi e non fa investimenti. Ma si deve altresì misurare la sensibile contrazione del mercato dell’auto ed il minor sfruttamento della propria capacità produttiva per stabilire quanta più ridotta capienza esista per una mossa correttiva.

Nella fabbrica Fiat-Gac, nel Paese che è il Paradiso dei lavoratori (è bene ripeterlo), un molto dignitoso operaio cinese percepisce una retribuzione mensile di 2.160 yuan, circa 275 € mentre un altrettanto molto onorevole impiegato cinese arriva a 3mila yuan, poco più di 380 €. Si vorrà pesare, rispetto agli equivalenti 1.000/2.000 euro delle retribuzioni che circolano in Italia, quanto la differenza possa incidere sui costi e spingere le imprese a lasciare l’Italia per investire in Cina? O in Serbia. O in Polonia. È l’ennesima, non secondaria, ragione concreta che induce le imprese a delocalizzare. La realtà è questa. Da noi ci si muove in un ambiente generalmente maldisposto in cui, perennemente, regna sovrana l’incertezza che è l’esatto contrario di quanto necessita all’impresa per programmare i propri investimenti. È un dato di fatto che giudici, sindacalisti e politici troppo disinvoltamente non considerano e che influenza persino l’opinione pubblica indotta a subire il fascino di un fatuo populismo e a vedere le cose solo demagogicamente e non in modo fattibile. Nel marzo scorso British Gas, dopo un tempo di attesa durato un’eternità (11 anni, dal 2001) per ottenere autorizzazioni e permessi che una miope burocrazia non è ancora riuscita a rilasciare, ha rinunciato al progetto del rigassificatore di gas naturale liquefatto di Brindisi, 400 milioni di € di investimento, impegno medio di 500 addetti fino ad un massimo di mille posti di lavoro. Osserva Alberto Orioli su Il Sole/24Ore del 7 marzo 2012 come l’impianto gemello di quello di Brindisi (che avrebbe dovuto essere ultimato entro il 2008, ma si sa che in Italia le cose vanno sempre per le lunghe), progettato contemporaneamente nel Galles, sia entrato in funzione dopo soli 5 anni e, per quanto ubicato in un’area rilevante sotto il profilo naturalistico, non abbia sollevato alcun clamore né una mobilitazione no-gas, abbia creato centinaia di posti di lavoro e stia producendo 8 miliardi di metri cubi all’anno. Sviluppo, insomma conclude amaramente l’articolista. Però, da noi, se non si fa, almeno si discute. La Gazzetta del Mezzogiorno del 27 luglio 2012 riporta le dichiarazioni del ministro dello Sviluppo, Corrado Passera (Sto andando a fondo per capire quanto sia responsabilità di procedure effettivamente inaccettabilmente lunghe o se ci siano anche altri tipi di problemi) e del ministro dell’Ambiente, Corrado Clini (é una decisione della British Gas, non è nostro mestiere quello di procacciare opportunità di investimento ad imprese e, poi, considera: quello che possiamo fare è cercare di fare in modo che le procedure di autorizzazione di progetti e investimenti avvengano in tempi certi; questo già sarebbe un gran passo avanti per il Paese). Nessuno sviluppo, insomma, solo parole su cui ci sarebbe parecchio da obiettare ma su cui, per carità di Patria, vale sorvolare. Ora il Governo dei tecnici – è ancora Alberto Orioli ad argomentare nell’articolo dalla titolazione emblematica No gas? No lavoro, no sviluppo, no ecologia – dà la risposta tecnica del buonsenso: vedremo, indagheremo, sonderemo. Ma i buoi sono scappati ed è tardi per chiudere la stalla. Cosa, in fine dei conti, i ministri dovrebbero capire dalle indagini che intendono promuovere? È tutto maledettamente semplice e chiaro. Si dissolve amaramente un’occasione per mille posti di lavoro in una zona ad elevato tasso di disoccupazione, non inferiore al 14% della popolazione in età da lavoro, unicamente perché l’impianto non piace. Più comprensibile (anche se ingiustificato), il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola ha sempre promesso che la vicenda del rigassificatore di Brindisi avrebbe segnato una sconfitta cocente per gli inglesi i quali Se pensano di vincere la partita si stanno illudendo. La pronuncia richiama il celebre aforisma di Winston Churchillgli Italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio. Di rimando, Corrado De Pascalis, segretario della Cisl, il 7 marzo 2012 ha detto a Domenico Palmiotti  de Il Sole/24Oreil rigassificatore della British gas non lo voleva nessuno e tutte le istituzioni si erano compattate, ma diciamo pure che a Brindisi c’è stata una corsa a chi diventava più ambientalista degli ambientalisti. E se Vendola alzava il tiro, la preoccupazione era quella di stargli dietro. Corrado De Pascalis aveva aggiunto in quella circostanza: Cisl e Uil hanno sempre detto sì al rigassificatore lasciando alle istituzioni il compito di scegliere l’area. La Cgil prima ha detto no, poi ha cambiato la sua posizione dicendo no solo a Capobianco. Ma per il resto? Tutti a dire no e solo no. Secondo Massimo Ferrarese, presidente della Provincia ed esponente di spicco di Confindustria, si sarebbe potuto fare diversamente: Sicuramente Brindisi ha detto no alla localizzazione a Capobianco … la politica e le istituzioni sono state incapaci di mediare e di trovare una soluzione alternativa: il rigassificatore all’esterno del porto in modo da non intralciarne le attività. Naturalmente, trattandosi di un’opera pubblica, non potevano mancare i soliti eventi di contorno: dagli arresti per casi di tangenti sino al sequestro della colmata a mare (l’unica opera mai realizzata) alle battaglie legali sulle autorizzazioni, dallo strascico di ricorsi alla procedura d’infrazione contro l’Italia aperta dall’Unione Europea, alle manifestazioni di protesta. Ostilità diffusa, problema gestito male, tante complicazioni. La chiave del caso è qui, dicono a Brindisi. Giuseppe Cordasco su Panorama.it del 7 marzo 2012 ci avverte del fatto che non c’è niente di nuovo sotto il sole. Saranno situazioni diverse ma il sottofondo è tragicamente comune: così succede in Val di Susa per la TAV ma é quello che più o meno avviene per altre trecento grandi opere di interesse strategico che, per le più svariate ragioni, restano bloccate. Le comunità locali, per il terrore di sollevare problemi all’ambiente, rifiutano in pratica ogni opera. Fermi. È sempre la stessa storia, come per la spending review con la quale il governo Monti deve oggi fare i conti. Tutti la vogliono virtuosa purché tocchi agli altri l’onere di ridurre le spese e tagliare gli sprechi. Immobili.

Diverso contesto ma identica conclusione anche a Taranto dove il gip ha ordinato il sequestro e il blocco degli impianti dell’ILVA, il più grande stabilimento europeo nel settore dell’acciaieria, causando lo stop per duemila operai che saranno costretti ad interrompere il lavoro e starsene a casa. C’é chi sostiene che lo stabilimento, oggetto dell’intervento della magistratura, già oggi rispetti gli standard europei. Può tuttavia essere che non sia così. Qui i sindacati all’unisono difendono lo stabilimento. La fabbrica non può essere fermata, i posti di lavoro non possono essere distrutti, bisogna fare ogni sforzo per salvare l’occupazione e tutelare l’ambienteSalvare l’occupazione, non salvaguardare l’impresa e che altri facciano, come sempre. Il sequestro, se si farà, farà sì che, con la chiusura, lo stabilimento smetta di generare risorse ma, insieme, di provvedere anche tutele, almeno per il personale che vi è occupatoMai però che le notizie vengano fornite con tutti i chiarimenti del caso: ad esempio, che un altoforno bloccato – incidentalmente un impianto che viene spento rischia anche irreparabili guasti durante la fermata – richiede dagli 8 ai 15 mesi per il ripristino del suo funzionamento. Quello dell’Ilva diventa un esempio visibilissimo dell’ostilità del nostro Paese verso l’industria. Un’ostilità forse non voluta da nessuno ma oggettivamente costituita dalle tante avversità che le imprese si trovano ad affrontare ritiene Gian Maria Gros-Pietro su Il Sole/24Ore del 28 luglio 2012. Il gip nell’ordinanza con cui dispone il sequestro e gli arresti fa affermazioni pesanti. La prima è mera ideologia (attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza) e, come tale, non avverte il bisogno di spiegare alcuna delle ragioni del provvedimento. Sulla seconda, premesso che la situazione dell’Ilva al giudice impone l’immediata adozione, a doverosa tutela di beni di rango costituzionale che non ammettono contemperamenti, compromessi o compressioni di sorta quali la salute e la vita umana, del sequestro preventivo, si pone, illico et immediate, l’obbligo di un debito raccordo con le altre meditazioni nell’ordinanza. La gestione del siderurgico di Taranto è sempre stata caratterizzata da una totale noncuranza dei gravissimi danni che il suo ciclo di lavorazione e produzione provoca all’ambiente e alla salute delle persone. Dall’accoppiata si può, come fa una nota di redazione de Il Fatto quotidiano del 26 luglio 2012, derivare la considerazione secondo cui “ancora oggi” gli impianti dell’Ilva producono “emissioni nocive” che, come hanno consentito di verificare gli accertamenti dell’Arpa, sono “oltre i limiti” e hanno “impatti devastanti” sull’ambiente e sulla popolazione. Di conseguenza, prosegue il giudice nella sua ordinanza, poiché Esiste l’obbligatorietà dell’azione penale e la necessità di perseguire i reati non c’era altra strada se non il sequestro, non c’era possibilità di adottare altri provvedimenti. Orbene, siccome il Gruppo Riva ha acquistato l’impianto di Taranto dallo Stato nel 1995, affermare che il nuovo proprietario ha continuato in tale attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto con una totale noncuranza dei gravissimi danni vuol dire, per via dell‘obbligatorietà dell’azione penale, che il sequestro preventivo avrebbe dovuto disporsi già almeno 15 anni e più fa (c’è qualcuno che sostiene addirittura la tesi di un impianto in rilevante perdita economica e ceduto dallo Stato in non buone condizioni [anche di manutenzione e di sicurezza?], ragion per cui, forse, sarebbe stato necessario risalire ancora più indietro nel tempo) se lo scopo era di non pregiudicare beni di rango costituzionale che non ammettono … ecc. Di certo c’è da sottolineare il fatto che l’ordinanza non è ancora esecutiva. Ma come: se l’impianto sequestrato fa male oggi cosa si aspetta? Per fermare gli impatti devastanti e le emissioni nocive non basta la parolina come sosteneva Tino Scotti in un vecchio Carosello. E com’è, fra l’altro, che gli Enti preposti al controllo ed alla sorveglianza (in Italia la burocrazia è spietata e onnipresente) hanno consentito l’esercizio dell’impianto per tutto questo tempo senza sequestrare le necessarie autorizzazioni?

Siamo già riusciti a scansare le installazioni nucleari anche se ci costa tanto di più senza poter sfuggire, per via del mancato controllo che è in mani altrui, il rischio di incidenti per impianti collocati vicino ai nostri confini. In un idilliaco prossimo futuro, assicurato da uno splendido illuminismo ideologico, i lavoratori potranno vivere felici e adeguatamente protetti da sindacati che garantiscono l’emanazione di leggi perfette e da giudici che non consentono discriminazioni di sorta, la costruzione di alcun rigassificatore e l’inquinamento dell’ambiente. Le imprese di contro, corrotte, sfruttatrici ed insofferenti delle leggi, si potranno piuttosto eliminare. Peccato solo che con le imprese si eliminerà insieme il lavoro. Fortunatamente non dominerà più la logica del profitto. Forse impazzerà la logica della perditaFiat justitia, pereat mundus.

© Carlo Callioni 2012