Il filosofo Aristotele, che distingueva tra il potere politico (polis) e il potere domestico (oikos), aiuta a capire che il carattere strutturalmente politico dell’uomo non implica necessariamente l’inesistenza di una sua singolare e distinta umanità o l’appiattimento, il livellamento, la massificazione, la globalizzazione, per così dire, del suo pensiero. Giusto il contrario di quanto avviene nella logica della biopolitica, ultimo acquisto del pensiero umano. Per essa non può esistere alcun sapere sul bios – e principalmente una sapienza scientifica – che sia dominio del privato (oikos), che manchi, cioè, di riconoscimento e di giustificazione pubblica (polis), perché ogni forma di sapere e qualsiasi dimensione attinente alla vita naturale dell’uomo deve ineluttabilmente avere rilievo pubblico, centrifugato e frullato, assoluto ed amalgamato, al punto da sconvolgere, se necessario, ogni assetto morale preesistente. La diversificazione che intercorre fra vivente e non vivente, ad esempio, nel quadro biopolitico ha una genesi unica, quella dettata dalla legge positiva cui è riservata la determinazione dei criteri utili a rilevare nascita e morte degli esseri umani. La biopolitica, in altri termini, è il luogo dove il potere incontra l’ambito della vita perché il potere possa ergersi a suo garante ed il consorzio umano faccia in modo di assegnarle in via esclusiva la gestione della vita biologica. La biopolitica si manifesta svuotando di senso la ragione della vita e la realtà della morte, impedendo ogni pacata riflessione circa i possibili stati di salute e di malattia o le opportunità dei conseguenti, eventuali interventi e metodi di cura.
La morale – che è un insieme di principi, di norme, di costumi e di valori ad informare il comportamento dell’uomo, che è fenomeno intimo, che è il rapporto con se stessi, che riguarda la coscienza, anzi è sostanzialmente la voce della coscienza – è al giorno d’oggi priva di ogni accattivante appeal perché è stata sovrastata da un’evoluzione progressista che sembra tanto inarrestabile quanto ragionevole. Il progressismo è una visione di vita che, avendo fallito il proprio scopo di assoggettare il mondo al governo della politica per via della decomposizione totale del socialismo reale, prova ora, cambiando registro ed obbiettivi, a rilanciare la promozione dei diritti civili e sociali tramite riforme progressive che rimpiazzino la rivoluzione anarchica di un tempo, che ridiano smalto alle rivendicazioni eugenetiche del nazismo (che è sempre bene ricordare non è altro che socialismo nazionalista tedesco), che illustrino e rinnovino le battaglie dei nuovi e dei vecchi partiti della sinistra (partito radicale, avanzi di partiti comunisti e movimenti aderenti [Lotta continua, Avanguardia operaia e PdUP o Partito di Unità Proletaria per il Comunismo, Manifesto, partito socialista, partito democratico, Sinistra Ecologia Libertà]). Credo si possa ben dire che, per la morale, se mi sono permessi un azzardato accostamento ed uno scorretto paragone, si sia verificata una specie di sublimazione, come avviene in fisica quando si passa dallo stato solido allo stato gassoso senza attraversare l’intermedio stato liquido. Dalla morale all’etica, dall’etica alla bioetica e, nell’ultimo passaggio, dalla bioetica alla biopolitica, qui, almeno secondo me, senza nemmeno transitare per la ragione. L’etica riguarda il rapporto con gli altri, è disciplina riflessiva sui giudizi morali e in sé assume una dimensione pubblica. Deriva dall’intento razionale (cioè filosofico) di fondare una morale collettiva da intendersi come disciplina oggettiva per presiedere e qualificare la morale personale, tanto da potersi definire anche filosofia morale. La bioetica è il passo successivo. Trova causa e ragione nel prorompente sviluppo della scienza e delle tecnologie biomediche che pone interrogativi e problemi ben oltre l’ambito del mero sapere scientifico e, intuitivamente, anche della sfera individuale. Il suo ambiente è naturalmente pubblico e coinvolge necessariamente medici, scienziati e specialisti della materia. L’uomo è l’obiettivo, più oggetto però, purtroppo, che soggetto, e l’uomo, al massimo, è invitato a presenziare ma deve stare alla finestra a vedere, quasi fosse un convitato di pietra.
Gli obiettivi della biopolitica sono estesi, più di quelli della bioetica. Poiché oggi vale e prevale l’idea che ogni carattere della vita naturale, come sopra si diceva, abbia rilievo pubblico, con la biopolitica la transizione dal privato al pubblico si completa definitivamente e nell’ambito pubblico si perfeziona. Da un punto di vista istituzionale è il massimo risultato ottenibile dall’evoluzione progressista, di derivazione illuminista e socialista, che, dismesso l’abito dichiaratamente politico ed accantonata la rivoluzione anarchica o socialista per i continui e talvolta tragici insuccessi riportati, veste i nuovi panni del riformismo che si richiama al progresso scientifico e reclama un sempre maggior spazio a favore dei diritti civili, la sua nuova bandiera. La sua opera di propaganda si giudica immune da ogni errore pregresso perché rifiuta in toto il passato e non solo non si sente condizionata in nulla, il che è pretesa almeno infondata e largamente impropria essendo il prodotto di una visione razionalista del positivismo e dell’evoluzionismo in ambito sociale, politico ed economico, e si preconizza proiettata verso un futuro radioso candidandosi a guidarlo e dimenticando la saggia e prudente osservazione di Voltaire che, pur di fede illuminista, credeva nel progresso annunciato ma non era disposto a trasformarlo in un dogma: un giorno – diceva – tutto andrà meglio ecco la nostra speranza; ogni cosa va bene, ecco la nostra illusione. La sua capillare diffusione è naturale appannaggio delle formazioni più avanzate della società, del partito progressista, che – per la definizione del prof. Tullio De Mauro (linguista di fama, vicino a Lotta Continua, iscritto al P.C.I., ministro della Pubblica Istruzione del secondo Governo Amato [aprile 2000 – giugno 2001] su indicazione del Partito di Rifondazione Comunista – sostiene la possibilità del progresso e dell’evoluzione della società, ed è fautore di riforme che facilitino tale processo, in ambito politico – istituzionale, sociale, economico e civile. Come ieri, fino alla scomparsa, cioè, del socialismo reale, così oggi, con la stessa sicumera e spavalderia del passato, i progressisti ritengono di possedere la saggezza superiore della verità e di poter insegnare a tutto il mondo i nuovi confini della civiltà. Non si può dimenticare la sua disastrosa battaglia contro il tema di italiano né che egli sia stato uno dei campioni del successo formativo garantito, bizzarra teoria secondo la quale uno studente non dovrebbe studiare tutte le materie, ma soltanto quelle in cui riesce meglio di modo che la soglia di sufficienza dovrebbe essere la media minima, la media delle materie in cui lo studente va meglio. Roger Scruton, inglese, giornalista, scrittore, filosofo, facendo, magari, forse riferimento a questi arditi esperimenti, definiva la cultura una dimensione ormai sconosciuta in tempi di basso impero. Che non mi pare proprio un grande riconoscimento. Paul-Michel FoucaultPaul-Michel Foucault (Poitiers, 15 ottobre 1926 – Parigi, ... Leggi – sociologo, filosofo, psicologo e storico francese, un pensatore famoso del XX secolo – ha a lungo indagato le possibilità di resistenza del biologico e del vivente alla dinamica del politico. Per FoucaultPaul-Michel Foucault (Poitiers, 15 ottobre 1926 – Parigi, ... Leggi la biopolitica è l’estrinsecazione del potere che intende governare tanto il corpo che la mente dell’uomo, è il tentativo di dare giustificazione, storicizzandola, all’invadenza delle istituzioni nella vita, è il processo di oggettivazione che abolisce o comunque circoscrive l’essere umano comprimendo per quanto sia possibile la sua partecipazione nella vita come protagonista attivo ed assoluto per relegarlo nella dimensione passiva di semplice oggetto di conoscenza, è, in definitiva, la dimensione in cui si sovrappongono e si confondono le classi del biologico e del politico.
Questo cammino di ricerca era già stato percorso nell’antichità dai pensatori greci, anche se con esiti opposti. I Greci marcavano la differenza della vita fra zoé (vita animale) e bìos (facoltà superiori che danno all’uomo diritti e libertà). All’uomo e non al potere sarebbe spettata, secondo loro, ogni decisione sul come vivere. Nemmeno loro avrebbero avuto peraltro titolo per disquisire sul suo essere-in-vita, perché essi riconoscevano come il valore del suo essere-in-vita non dipende dalla volontà dell’uomo. Nel substrato della biopolitica, nel suo elemento costitutivo, si rovescia tutto: la legalizzazione dell’aborto, come ha mostrato Luc Boltanski, sociologo francese, attualmente direttore di ricerca presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, è stata una pratica diffusa e, in genere, tollerata in tutte le società umane dall’antichità ai nostri giorni, ma solo in un contesto biopolitico può testimoniare un diritto fondamentale e non un omicidio; la legalizzazione dell’eutanasia, da atto omicida eccezionale, estremo, tragico e pietoso si sta trasformando in pratica di gestione burocratica della fine della vita umana; la pretesa di ridefinire il matrimonio estendendolo agli omosessuali, atteso che, sotto un profilo privato è evidente che ciascuno possa regolarsi come meglio crede e come la sua coscienza gli suggerisce, se riguardata dal punto di vista pubblico, offre una lettura del tema completamente diversa. Ammettere tale richiesta intanto significherebbe tra l’altro – per quanto sia chiaro come la notazione non abbia carattere né di essenzialità né di particolare rilevanza antropologica, morale o sociale ma di semplice curiosità – stravolgere il senso delle rilevazioni che vengono effettuate dagli Uffici Anagrafe il cui scopo dichiarato è quello, esclusivo, di annotare incrementi e decrementi della popolazione. Il coinvolgere, a questo fine, gli omosessuali che non possono avere figli, sarebbe come minimo un non senso ma è fenomeno che ha un rilievo biopolitico immenso e che, con il pretesto di riconoscere diritti personali, altera l’identità stessa della persona (che è costitutivamente sessuata) attraverso il diniego del riconoscimento della rilevanza pubblica della sessualità. In questo divergente ed inconciliabile apprezzamento, fra l’altro, sta la radice razionale e il fondamento antropologico vero delle opzioni politiche avverse ad aborto e ad eutanasia e riluttanti a concedere ingiustificate patenti di legittimità istituzionale agli omosessuali per riportarli da questione di diritto, nel più angusto, ma appropriato ed onesto, ambito di semplice problema morale o, al massimo, sociale, contro ogni indebito intervento nel bìos che ambirebbe trasformare la vita dell’uomo in semplice zoé.
Le battaglie contro la biopolitica sono, per quanto consta nel preciso momento storico attuale, delle battaglie difficili da condurre e che rischiano di risultare perse in partenza. La nostra epoca vive di diritti (e di nessun o pochi doveri), da concedere a tutti senza concrete limitazioni, così che ogni rivendicazione di diritti, veri o presunti, ha buone probabilità di accoglimento. L’uomo, costitutivamente sempre pencolante fra bene e male, che già da sé è naturalmente sospinto verso la felicità ed è al tempo stesso avido di conoscenza al punto di non accontentarsi del sapere accademico, della medicina e della teologia, e di non rifiutare alcun percorso e qualsiasi esperienza di vita, anche temeraria, si possa intravedere percorribile dato che, proprio in quanto ogni desiderio diventa, ipso facto, un diritto, può manifestare in pieno le sue, anche spericolate, interazioni ed inclinazioni. L’uomo che osa opporsi a questo andazzo, viene, per converso, delegittimato e passa per bacchettone, o oscurantista, o retrogrado, o retrivo, in forza di un’opinione che non si sforza nemmeno di ricercare plausibili ragioni a sostegno per il fatto di rivestire un valore assiomatico e che, per ciò stesso, non consente appello, ogni critica venendo ricondotta a pregiudiziale opposizione al progresso fatta solo per principio, con epiteti talvolta di vero e proprio insulto tendenti a evidenziare nell’interlocutore un livello di preoccupante sottosviluppo mentale e culturale. Emerge il fascino del proibito, dell’andare contro corrente, dell’immaginare una propria indipendenza da affermare anche al di là della reale potenzialità della natura umana. È l’attrazione dell’avventurarsi con la massima ed ingenua fiducia laddove un’intelligenza diabolica gli faccia balenare un futuro di felicità e di sapere e verso cui questa lo intenda seducentemente trascinare. É la base del vendere l’anima al diavolo, argomento fantasioso su cui molti racconti popolari, in tutte le epoche storiche, hanno concorso ad eccitare ed ispirare la fantasia umana che li ha costruiti. È la dannazione del dottor Faust, l’uomo sapiente della popolare leggenda medioevale resa immortale da Johann Wolfgang von Goethe che assiste alla lotta tra Dio e il demonio (che altro non è se non la battaglia tra il vizio e la virtù), a cui il diavolo Mefistofele si manifesta per promettere conoscenza e potere (oggi) in cambio della sua anima (domani). É il relativismo morale che sta dominando il mondo per il quale non sono più i valori e le verità morali a caratterizzare la vita dell’uomo ma è la società a determinare il proprio destino e la propria etica, esattamente l’opposto della convinzione, frutto di una saggezza contadina che emerge persino in una ragazza frivola e spensierata come la Rossella ‘O Hara di Via col vento quando il tramonto traumatico del suo mondo, fatto di vita comoda e di lussi, di schiavi e di ricchezze non conquistate, di civetteria, di feste e di piaceri, si presenta in forma brutale di realtà ostica, dolorosa e tragica, insopportabile per il peso della guerra persa, della miseria dilagante e di tutte le ambizioni perdute di un’intera generazione gaudente. Un problema alla volta dice Rossella, domani è un altro giorno, ci sarà tempo per pensarci e ripensarci e trovare la soluzione migliore. Mentre la moralità si fonda su principi di portata universale perché le leggi naturali e la coscienza sono quasi una seconda pelle dell’uomo, il relativismo morale nega l’esistenza di standards assoluti ma incappa in alcune contraddizioni logiche evidenti. Di fronte ad un omicida anche il relativista è infatti costretto ad optare per un valore assoluto, l’omicidio ma, così facendo, cancella il relativismo che vorrebbe l’omicida esente da colpa se non viola i suoi propri standard. Dovendosi attribuire alla cultura, e non all’uomo, la definizione del giusto e dell’ingiusto nessuno dovrebbe permettersi di stigmatizzare il comportamento dei nazisti che, in fin dei conti, non facevano altro, sia pure con teutonica determinazione, che applicare i principi fondanti della loro morale, di ciò che, in altri termini, la loro cultura suggeriva loro. Altrettanto incongruente è il fatto che tanto i pro-life che i propugnatori dell’interruzione volontaria della gravidanza (come eufemisticamente viene con pudore definita, forse anche per un rigurgito di moralità e senza rendersi conto del buffo cul de sac in cui si va a finire destrutturando il linguaggio comune) ritengano l’omicidio un delitto deprecabile ma differenzino le loro riflessioni a proposito di aborto.
© Carlo Callioni 2014