• Mar. Apr 29th, 2025

Carlo Martello

Un blog per ospitare le mie opinioni su politica, economia, storia, e chi più ne ha più ne metta

Dell’italica pregiudiziale contrarietà alla libera impresa (ovvero perchè “difendiamo” ALCOA e CarboSulcis)

Alcoa PortovesmeAlcoa Portovesme

Gli elementi di fatto della crisi che attanaglia sia la Carbosulcis s.p.a. – società di proprietà della Regione Autonoma della Sardegna che gestisce la miniera di Nuraxi Figus, ultima miniera di carbone rimasta estrattiva nel Sulcis ed in Italia – che l’ALCOA Trasformazioni s.r.l. Portovesme, multinazionale americana che, negli anni ’90 e per effetto della liquidazione dell’EFIM  e la ristrutturazione dell’ENI che portarono alla privatizzazione delle loro attività, acquisì gli impianti metallurgici di Portovesme –  hanno origini lontane nel tempo e, comunque, sono da sempre ben note, non sono mai cambiate e, soprattutto, non sono così stravaganti da essere difficili da capire e da curare.

Per rendersene conto basterebbe ascoltare Gianbattista Zorzoli,ex docente di Impianti nucleari al Politecnico, uomo di sinistra e di vecchia militanza PCI, il quale, intervistato da Paolo Bracalini (Il Giornale, 5 settembre 2012), riesce ad accantonare ogni pregiudizio ideologico indotto dalla militanza politica, bada alla realtà e premette: Mi sembra di tornare agli anni ’80. Già allora c’era il problema della miniera sarda, e per cercare di salvarla si proponevano più o meno le stesse cose di oggi per poi sostenere come Nelle centrali a carbone dei paesi europei la cenere non supera mai il 3%. Invece, il numero medio del contenuto di cenere nel carbone del Sulcis è 23%. Significa due terzi di energia prodotta in meno per tonnellata e anche Il carbone normale ha un contenuto di zolfo tra lo 0,5% e il 2%, quello del Sulcis ne ha più del 6%. Come a dire che il carbone del Sulcis è di qualità scadente. Oltre tutto, alla domanda del giornalista se chiudesse la miniera, che conseguenze ci sarebbero per la sicurezza energetica dell’Italia? il prof. Gianbattista Zorzoli tranquillamente spiega: Nessuna, non ce ne accorgeremmo nemmeno. L’Italia importa 17 milioni di tonnellate di carbone da bruciare in centrali termoelettriche, il Sulcis ne produce 1 milione, il 5% soltanto. Non se ne produce di più perché da solo non può essere usato, va miscelato con carboni di qualità per rispettare le norme ambientali. Rafforza questo punto di vista Alfredo Franchini dellaNuova Sardegna che definisce la miniera di carbone del Sulcisuna grande Utopia ricordando come il carbone sardo abbia un peccato originale: una percentuale altissima di zolfo che richiede diverse lavorazioni prima di poterlo bruciare con costi molto elevati. Per evitare l’inconveniente di un eccessivo carico di zolfo che, fra l’altro, potrebbe anche danneggiare l’ecosistema, la Regione aveva immaginato due progetti: il primo, desolatamente rimasto sulla carta, prevedeva di gassificare il carbone (la Sotacarbo s.p.a. aveva promosso diversi bandi ma nessuna azienda aveva risposto al suo appello. Il prof. Gianbattista Zorzoli sottolinea: Per quel carbone lì bisognerebbe studiare un gassificatore ad hoc, che oltre alle spese di sviluppo avrebbe costi più alti. Ergo, non interessa); il secondo, ancora più ambizioso (anche in rapporto all’altissimo costo: un miliardo e mezzo in otto anni), contempla la cattura e lo stoccaggio a 350 metri di profondità della CO2 con una tecnologia che al presente non ha superato lo stadio sperimentale ed é ben lontana, quindi, dall’essere certa e dal consentire il varo di una vera produzione industriale.

Stessa storia per l’ALCOA. Per separare l’alluminio dalla bauxite, a parere del giornalista Maurizio Stefanini, sono necessarie grandi quantità di energia elettrica, che contribuiscono al 35-40% del costo di produzione. Per questo, è normale realizzare le fabbriche di alluminio vicino a una centrale elettrica, e comunque in Paese dall’energia abbondante, piuttosto che nei Paesi dove le miniere di bauxite si trovano. L’ALCOA Inc. (Aluminum Company of America) è un’azienda statunitense che dispone a Portovesme di un’unità produttiva ora in via di chiusura. Riferisce sempre Maurizio Stefanini (AGI-Agenzia Giornalistica Italia S.p.A., 12 settembre 2012) che Le motivazioni alla base degli alti costi (che fanno chiudere) sono il costo dell’energia, il costo delle materie prime e una produttività inferiore rispetto a quella che si registra in altri stabilimenti simili. A tutto ciò, si aggiunge il fatto che il prezzo dell’alluminio a livello mondiale è diminuito di oltre il 27% dal picco nel 2011. Quando, anche dopo la privatizzazione, si continuò ad approfittare di tariffe energetiche agevolate, per l’ALCOA poteva anche stare bene. Pur senza prospettarsi un radioso futuro la società poteva almeno contribuire a salvare l’occupazione dei circa 500 dipendenti. Ma il subentro della Commissione Europea a dichiarare il privilegio non conforme alla normativa sugli aiuti di Stato e dello Stato a complicare le cose con una disposizione allineata a quella europea sono bastati a convincere l’ALCOA che ormai la produzione di alluminio in Sardegna non potrà mai più essere competitiva.

In Italia l’energia costa un terzo in più della media europea. Era più cara negli anni Novanta ed è più cara adesso. Nessuno è riuscito a modificare questo vincolo strutturale e, dunque, dato che i sussidi pubblici non piacciono a Bruxelles, ALCOA se ne va (Paolo BriccoIl Sole-24 Ore, 5 settembre 2012). Ricorda Maurizio Stefanini: Il fatto è però che un’evoluzione del genere era facilmente prevedibile fin dal 1996 e ciò non può rappresentare né un’attenuante né una giustificazione per l’immobilismo della Pubblica Amministrazione. Anzi, rappresenta un’aggravante imperdonabile, in linea, peraltro, con la logica abituale dell’intervento pubblico. Nei primi anni ’90, è solo un esempio, nella zona della Sardegna del sud-ovest per incentivare investimenti industriali venivano offerti (credo dalla Regione) capannoni in proprietà a condizioni talmente vantaggiose da poter dire che essi fossero quasi regalati ed un contributo annuale di 60 milioni di lire a fondo perduto per le imprese che avessero assunto operai provenienti dal settore minierario. Una politica suicida perché capace di allettare unicamente una speculazione volatile, presente unicamente per sfruttare, e finché ci sia da sfruttare, l’attimo favorevole, e che nulla ha a che vedere con insediamenti produttivi fatti di programmi a medio – lungo termine, inseriti in aree caratterizzate da infrastrutture efficienti, vicine ai centri di rifornimento e in cui sia possibile dotarsi di personale addestrato.

Le imprese devono saper stare in piedi da sole. Se occorre aiutarle è solo perché sono perdenti e, nel caso, è meglio che scompaiano. Insistere per farle sopravvivere è una solenne sciocchezza ed uno smaccato inganno. Quando, in condizioni operative normali, i costi superano i ricavi ci sono due sole possibilità: chiudere prima che sia troppo tardi o mangiarsi il patrimonio che non elimina la decisione finale da adottare che non muta. Solo la chiusura è spostata un po’ più in là nel tempo. Come rammenta il vecchio saggio: Il medico pietoso manda in cancrena la gamba, il medico avveduto, in assenza di alternativa, la amputa. Ancora Gianbattista Zorzoli, a Il Giornale, sostiene al proposito: Dobbiamo essere onesti con chi lavora, specie con chi fa un lavoro duro come il minatore. Tutti i soldi che servono per tenere aperta, da 30 anni, la miniera sarda, avremmo trovato una soluzione per tutti loroFrancesco Pigliaru e Alessandro Lanza (La Nuova Sardegna, 31 agosto 2012), richiamando un articolo pubblicato nel 1996 dal Corriere della Sera, affermano: i soli sussidi a fondo perduto concessi dallo Stato nel decennio 1985-1995 avevano superato i 900 miliardi di lire. Ad essi occorreva in più aggiungere gli interventi diretti dell’Eni (250 miliardi nel 1985), i contributi concessi dalla Regione Sardegna in tutti questi anni, e l’impegno dell’Enel ad acquistare l’energia elettrica prodotta con il carbone del Sulcis a un prezzo di oltre il cento per cento superiore al normale costo di produzione dell’impresa elettrica … se i soldi spesi per il carbone del Sulcis fossero stati attribuiti non all’impresa ma, appunto, ai lavoratori … Potenzialmente, ogni lavoratore avrebbe avuto a disposizione una dote iniziale di un miliardo di lire, avrebbe potuto godere per vent’anni di una rendita mensile di circa 1400 euro, e a fine periodo il capitale iniziale sarebbe rimasto invariato. Si chiede Nicola Porro (Il Giornale, 31 agosto 2012): Ha senso salvare 460 posti di lavoro scaricando sulla bolletta elettrica una mini-tassa di 250 milioni all’anno, spalmata su tutti gli italiani? Ha avuto senso regalare all’ALCOA, sempre in Sardegna, più di due miliardi di euro dei contribuenti italiani, in dieci anni, per salvaguardare un migliaio di posti di lavoro?

Alfredo Franchini (Nuova Sardegna, 12 settembre 2012) immagina  che fosse stata la povertà del Sulcis ad imporre al governo scelte anche antieconomiche e tra queste un accordo con l’Enel, obbligata ad acquistare elettricità da Carbosulcis con un sovrapprezzo del 222% rispetto a quello di mercato. Niente di più inesatto. Il fatto è – sono di nuovo Francesco Pigliaru e Alessandro Lanza a proporre la considerazione – che di fronte a emergenze di occupazione e di reddito, l’istinto italiano, sbagliato, è di esercitare un vero e proprio accanimento terapeutico a favore dell’impresa in crisi, anche quando le prospettive di mercato sono improbabili o nulle. Precisa Nicola Porro: gli operai dell’ALCOA e i minatori del Sulcis oggi pagano l’inganno di vent’anni di vigliaccheria della politica che non ha avuto il coraggio di dire che quell’attività non reggeva più.

Non è, d’altronde, che le proposte di oggi siano più concrete o più sagge di quelle di ieri. Per capirlo è sufficiente leggere le dichiarazioni dei politici o ascoltare i suggerimenti che sulla stampa o alla televisione vengono da loro indicati dopo che per trenta/quarant’anni almeno sulle questioni mai avevano avuto l’estro di esprimere un’idea. Raffaele Bonanni, leader della Cisl, volge al patetico (non siamo disposti a desertificare un territorio già così povero)  mentre Ugo Cappellacci, presidente della Regione Sardegna, fa ricorso al fantasioso (Per salvaguardare l’occupazione e rilanciare una realtà strategica [sic!!!] per l’Italia come Portovesme occorre fare tutto il possibile e, qualora fosse necessario, anche l’impossibile) seguito da Marco Bentivogli,segretario della FIM Cisl, lui pure affascinato dalla strategia (ALCOA riguarda il futuro strategico a livello industriale del nostro Paese); Nichi Vendola, presidente di SEL, la butta in politica(incapacità che ha avuto la politica del centrodestra in questi anni, e anche l’attuale governo, nel porre in atto politiche concrete di sviluppo e per il lavoro) e Pier Ferdinando Casini riflette sul sociale (Quella del Sulcis è una situazione complicata, è lo specchio dei problemi del nostro Paese. Oltre al dramma economico esiste un dramma sociale. Il Sulcis, però, non può essere abbandonato), Pier Luigi Bersani parla di impegno massimo per scongiurare la chiusura (Abbiamo espresso solidarietà ai lavoratori e l’idea che la produzione di alluminio non possa finire così) ed Angelino Alfano interviene per garantire competitività (Se davvero l’Italia vuole attrarre investitori internazionali la questione ineludibile é quella del contenimento dei costi dell’energia, condizione essenziale per garantire competitività). Nessuno, però, che raccomandi in concreto cosa fare. Laura Spezia, segretario nazionale della Fiom-Cgil, si preoccupa enfaticamente dell’occupazione più che non dell’alluminio (È compito del governo impedire che un’azienda come ALCOA, produttrice di un bene primario, quale l’alluminio, per l’industria del nostro paese possa chiudere e determinare un crollo occupazionale in un territorio già così provato come il Sulcis Iglesiente). Lo zenit della retorica è raggiunto da Corrado Passera, ministro dello Sviluppo economico, il quale non sa che pesci pigliare. Nel giro di pochi giorni ha sostenuto con estrema facilità che si tratta di una situazione quasi impossibile data la difficoltà a trovare investitori e il suo preciso opposto, di non aver mai pensato che fosse un caso impossibile.

Sarà per ragioni storiche (il pauperismo cristiano) e per i continui distinguo ideologici (di matrice illuminista e socialista), il fatto è che nel nostro Paese c’è una indiscussa e dichiarata ostilità sia nei confronti dell’impresa che riguardo alla ricchezza. Non ci si rallegra se l’impresa guadagna ed è prospera dato che essa non può avere fortuna in dipendenza del fatto di saper esprimere valori e opportunamente intercettare le esigenze e la domanda del mercato, perché è bene organizzata e ben gestita e tiene sotto controllo i propri bilanci ma, con ogni probabilità, perché ruba o sfrutta o succhia sangue e sudore altrui. Per quanto possa sembrare strano, viene alla mente una riflessione sui politici che, così attenti alle virtù altrui, non sanno leggere un bilancio né tenere sotto controllo la propria struttura dato che, se così fosse, non si farebbero poi spennare, come ingenui sprovveduti, da tesorieri intraprendenti o coinvolgere in vicende dai contorni quanto mai disdicevoli, per aver utilizzato fondi pubblici a fini privati o per essere divenuti proprietari di casa pagata da sconosciuti. Non ci si preoccupa dell’impresa che funziona ma solo se e quando sia in procinto di cessare l’attività. Nello stesso senso la ricchezza non è mai vista di buon occhio, é un insulto alla miseria, é prevaricazione, é frode, é abuso, é amministrazione disonesta (e il pensiero qui torna ai politici). La ricchezza deve essere perseguitata. La spettacolarizzazione della lotta all’evasione fiscale provocherà magari anche la simpatia delle tricoteuses ma è quanto mai deleteria per una convivenza civile. Oltre tutto, i blitz dei controlli fiscali una tantum nelle località turistiche prestigiose del nostro Paese ed un eccesso maniacale di controlli, dallo spesometro al redditometro, dalla tracciabilità dei pagamenti alle limitazioni all’utilizzo di contanti, nascondono l’incapacità di organizzare controlli funzionali, regolari e continui nel tempo, che meglio potrebbero misurare razionalmente la fedeltà del cittadino rispetto ad interventi improvvisati quanto sporadici, l’inutilità di prescrizioni severe perché siano tenute scritture contabili come se anche un piccolo negozio avesse le responsabilità di una grande azienda per poi disattenderle platealmente. È certo che il superbollo per le auto oltre i 185kw di potenza debba penalizzare i ricchi. Peccato però che Maserati faccia registrare previsioni di vendita nel 2012 pari ad un meno 70% e che per Ferrari le stime siano ugualmente negative: meno 40%. È certo che il fantasma della tassa di soggiorno, trasformata poi in tassa di possesso, sia fatta per spaventare i ricchi. Peccato però che siano i comparti della nautica e del turismo da diporto a subire il contraccolpo di una norma tanto assurda quanto ridicola. Ci si dovrà arrendere e considerare come ineluttabile, infatti, che i ricchi continueranno a navigare, partendo semmai dalla Corsica e non più dalla Sardegna. Anziché dai porti italiani, dalla Croazia o dalla Francia che ci sono grati della fortuna improvvisa loro capitata e di avere modo di coprire con le loro risorse e per loro profitto una disdetta del 40% del posti barca in Italia. Non potranno essere altrettanto grati invece quei 90mila superstiti che lavoravano nel settore e non sanno fino a quando potranno continuare a farlo. Winston Churchill  sosteneva che una nazione che si tassa nella speranza di diventare prospera è come un uomo in piedi in un secchio che cerca di sollevarsi tirando il manico.

È certo, comunque sia, che la realtà esclude ogni possibile sostegno all’impresa che non deve essere apprezzata quando genera profitti ma sostenuta solo quando è in perdita. L’Ilva, ad esempio, nel 1995 era un vero e proprio rottame, frutto di una disastrosa gestione pubblica. Si dice che i Riva abbiano acquistato una fabbrica in pieno disfacimento e si racconta, per illustrare lo stato dell’arte, che negli anni Ottanta perfino tal Riccardo Modio, uno dei capi della mala tarantina, detto il messicano, finito morto ammazzato per mano di un gruppo rivale, controllasse un commercio di materiali ferrosi. L’avranno pure pagata poco, ma i Riva, in quella fabbrica, hanno messo oltre quattro miliardi di euro di investimenti scrive Paolo Bricco  su Il Sole-24 Ore del 5 settembre 2012. La pubblica autorità ha ora deciso di chiudere l’azienda perché, assatanata dal profitto, inquina. Nessuno se ne era accorto prima. Eppure per 34 anni la gestione era stata, come detto, pubblica e solo negli ultimi 17 anni era privata. Tobias Piller del Frankfurter Allgemeine Zeitung (Italia Oggi, 15 agosto 2012) afferma che La Giustizia si rivela come nemica del mondo economico. La famiglia degli imprenditori si rivela miope, ed i sindacati, imbalsamati nei vecchi riti, non sono partner adatti dei datori di lavoro per prospettive a lungo termine in grado di mettere in sicurezza i posti di lavoro grazie alla competitività … Il Caso di Taranto fa vedere un’altra volta, quanto siano importanti per la competitività le istituzioni funzionanti. British Gas, dopo 11 anni di attesa, ha rinunciato al progetto del rigassificatore di gas naturale liquefatto di Brindisi.400 milioni di euro di investimento e un impegno medio di 500 addetti fino ad un massimo di mille posti di lavoro andati in fumo. Perché? Perché alla politica il rigassificatore non piaceva. FIAT è stata condannata dal tribunale di Roma alla riassunzione di 145 dipendenti tesserati FIOM. Perché? Perché il giudice ha ritenuto discriminatorio il comportamento di FIAT, addossandole un’ imponibile di manodopera che, in un periodo di crisi del comparto automobilistico, graverà sulla sopravvivenza dell’impresa.

Tornando al tema del Sulcis, non vi è modo di arrestare la deindustrializzazione della Sardegna ipotizzando l’immistione della politica nell’economia regionale. La politica degli anni in cui c’era abbondanza di mezzi pubblici da impiegare, o meglio da sperperare allegramente, condusse nel Sud d’Italia alla formazione delle c.d. cattedrali nel deserto ed alla nascita dei c.d.poli di sviluppo industriale che avrebbero dovuto rappresentare uno stimolo formidabile per lo sviluppo dell’economia delle regioni meridionali. In Sardegna sono così sorti, a Cagliari (Macchiareddu – Grogastu e Sarroch), a Porto Torres e, in un secondo momento, ad Ottana) grandi complessi petrolchimici e raffinerie per la lavorazione del greggio. Non si può caldeggiare l’idea che la gestione pubblica, vista la situazione attuale di progressive dismissioni, abbia originato sicuri e permanenti vantaggi all’economia sarda. La Gallura si dichiarò allora non disposta a ospitare grandi impianti industriali e oggi, ad onor del vero, sta molto meglio di chi allora scelse la strategia dell’industrializzazione forzata. Per sentirsi importanti, almeno a parole, si possono ricuperare immaginari valori strategici persino per l’alluminio. È improbabile che lo sia ma, quand’anche fosse vero, sarà impossibile impedire che la produzione di alluminio finisca in Russia e in Arabia Saudita dove l’energia ha un costo straordinariamente basso e si realizzano impianti di maggiori dimensioni capaci di generare significative economie di scala e, di conseguenza, di ulteriormente comprimere i costi. Il problema, fra l’altro, supera i confini regionali della Sardegna perché importanti contrazioni di capacità produttiva sono in progetto ovunque in Europa.

Non vi è pubblica amministrazione, per quanto illuminata essa sia, in grado di modificare in meglio il mercato. Può bloccarlo, fino a distruggerlo. Può giocare a fare del capitalismo finanziando imprese private con fondi pubblici o sovvenzionando direttamente aziende statali, spesso in perdita (20 anni di sussidi in Sardegna sono praticamente divenuti una tradizione consuetudinaria), assistendo l’impresa con prescrizioni che per lo più limitano la sua libertà di movimento, impedendo, di fatto, che imprese improduttive vengano eliminate dalla concorrenza per liberare risorse da reimpiegare in attività più proficue. Tutto questo non succede in Danimarca. Perdere il lavoro per i danesi non è un dramma né vi è ragione di portare l’evento di fronte ad un giudice o di obbligare l’azienda alla riassunzione perché lo Stato provvede a garantire un reddito decente ed un efficiente apparato misto, pubblico e privato, accompagna rapidamente il lavoratore verso una nuova occupazione con adeguati programmi di formazione e con strumenti di orientamento utili ad indirizzare le scelte di modo che attitudini e capacità personali possono unirsi alle esigenze e al fabbisogno del mercato. Altrettanto importante é, favorire la creazione di nuove attività. Solo la nascita di nuove imprese può permettere di assorbire i lavoratori disoccupati. Perché non dovrebbe poter capitare anche da noi?

Su quest’ultimo punto ci sono due ultime cose da dire. Favorire la creazione di nuove attività non significherà mai compensare gli svantaggi di un territorio con trasferimenti di soldi alle imprese: il metodo produce assistenzialismo e la cosa è stato a josa dimostrato che non funziona. È strano che nelle imprese più piccole, di pochi addetti, dove più facilmente potrebbe verificarsi l’esplosione di rivalità ed antipatie personali o scoccare la scintilla dell’insofferenza, difficilmente si invoca la presenza del giudice perché, generalmente, il clima é di reciproca stima fra datore di lavoro e dipendente mentre nelle grandi aziende nelle quali i grandi numeri impediscono all’imprenditore di manifestare nei riguardi di chicchessia avversioni preconcette che dipendano da un mero comportamento discriminatorio l’intromissione del giudice diventa frequentemente determinante.

© Carlo Callioni 2012