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Carlo Martello

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Il debito pubblico secondo Matteo Renzi

Ronald ReaganRonald Reagan

Un presupposto insensato

Sostituire un debito con un altro debito non è, comunque lo si voglia giudicare, un principio sano. Talvolta ci si può essere costretti. Può capitare, ad esempio, che un semplice scoperto di conto induca la banca, in alternativa alla chiusura del conto, a richiedere una garanzia ipotecaria non bastando più il solo credito di firma. Può capitare, inoltre, che la pressione esercitata sul debitore sia forte al punto da non concedergli alternative di sorta. Anche quando, in concreto, la soluzione si riveli accettabile concorrendo a risolvere positivamente una situazione altrimenti critica, il giudizio non può però che rimanere, di massima, negativo. Spesso, infatti, si danno occasioni ed opportunità che sarebbe doveroso esaminare e cercare di percorrere con più attenzione prima di abbandonarle. Quasi sempre esistono possibilità di scelta tra più soluzioni ed alcune opzioni fra più decisioni adottabili. Nel caso in cui apparisse impossibile ogni altro cammino resterebbe almeno da valutare come e perché si sia giunti ad una posizione senza sbocchi, ricercando le vere cause di uno stato di irreversibile decadenza. Anche solo per evitare di ripetere identici errori o schivare future ricadute.

A proposito di debiti, esiste un problema italiano di questo tipo e di lungo termine. Esso – prescindendo dalla vicenda INPS – INPDAP (che è una furbata inaudita quanto ingenua del governo Prodi [copyright 1996]) per falsare un bilancio: non ve lo indichiamo il debito c’è ma sembra non esserci, come dire: occhio non vede cuore non duole – permane irrisolto e ha al centro l’enorme debito pubblico, debito che lo Stato ha sempre cercato di dominare non pagandolo come sarebbe corretto fare ma indebitando al suo posto il contribuente italiano. Costringendo quest’ultimo, in altri termini, con destrezza, a pagare in sua vece. In parole povere, mettendosi a rubare nelle tasche del contribuente per non dichiarare bancarotta. Va ricordato come, nel corso della storia, il vizietto del potere sia sempre stato quello di non pagare i propri debiti rendendo per tale via estremamente difficile affermare principi giuridici fondamentali perché – un tempo accadeva con i sovrani assoluti e ai nostri giorni capita con i governi repubblicani – essi si sono sempre collocati su un piano di netta superiorità rispetto ai sudditi e ai cittadini. Nel 1343, ad esempio, Edoardo III d’Inghilterra finì fallito trascinando nel baratro i Peruzzi, la famiglia di banchieri fiorentini tanto famosa da essere richiamata da Dante Alighieri nella Divina Commedia, famiglia che invano reclamava il rimborso dei cospicui prestiti erogati. Idem per il Re Sole che non ripagava dei loro favori né banchieri né mercanti limitandosi a proteggerli dai loro creditori. Stessa faccenda per il suo successore Luigi XV che era riuscito a racimolare un disavanzo astronomico. Lo Stato, così agendo, minaccia la libertà degli uomini e la civile convivenza di una Nazione, introducendo elementi distorsivi nell’accumulazione della ricchezza e svalutando il risparmio privato, impoverendo, mortificando e dissanguando il Paese che viene prostrato dal finanziamento del debito pubblico. Senza mai pensare, almeno da noi, di eliminare i tanti sprechi che si annidano nella spesa pubblica, inquinata da corruzione ed assistenzialismo, oberata da fondi per usi clientelari o per la soddisfazione di interessi corporativi, disastrata da strafalcioni di puro statalismo che, anziché operare per il bene dei cittadini, pretende di porre loro al suo servizio. Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a proposito di tagli per ridurre il debito, durante un colloquio con l’agenzia Ansa ha lamentato in questi giorni una grossissima questione, dovendosi ritenere indispensabile – come parlasse a suocera perché nuora potesse intendere e, nella circostanza, nuora, fuor di metafora, sarebbe Matteo Renzi – procedere su direttrici diverse da quelle sinora seguite. Serve il passaggio da tagli che abbiamo conosciuto assolutamente immotivati a tagli ragionati in base a un nuovo ordine di priorità. La spending review, stando al presidente della Repubblica, dovrebbe intervenire con capacità selettiva, il che però presuppone discorsi che ancora assai poco vengono fatti. Sembrerebbe un vibrante appello a riprendere un tragitto di correttezza. In effetti, tradotto dal burocratese, è l’invito imposto al premier perché rallenti, rimandando le mosse ad un lontano ed ipotetico futuro, e riprenda quella concertazione che pareva essere stata felicemente e definitivamente superata e che si stima non sia particolarmente apprezzata dall’attuale Presidente del Consiglio. Non si tratta di un richiamo del tutto nuovo ma esso poteva funzionare meglio al tempo dei governi di Mario Monti e di Enrico Letta, sempre inclini a riverire il Presidente cui dovevano tutto. È evidente che il Presidente sia al momento almeno preoccupato. Renzi cambia l’archetipo: non si vogliono tavoli per mercanteggiare, non servono discussioni, non si accettano bocciature preventive. Si decide. Si fa. È lo charme di Matteo Renzi. Che lo rende simpatico e lo rende credibile. Resta da vedere se riuscirà davvero a decidere e fare.

Di alcuni casi significativi

I tagli alle spese, però, anche con Renzi, sono, almeno per il momento, quasi sempre più annunciati che reali. Se ne potrebbero fare a josa perché sono tantissimi. Per trovare alcuni esempi, fra i mille possibili, di sprechi nella spesa pubblica da tagliare non c’è perciò che l’imbarazzo della scelta.

Prima di Matteo Renzi. Il 22 agosto 2011 Il Fatto Quotidiano segnalava l’assegno da 45 milioni di euro staccato dal governo perché si potessero pagare gli stipendi ai 1500 dipendenti della GESIP, s.p.a. interamente posseduta dal Comune di Palermo, che perde circa 10 milioni di euro ogni anno e le cui attività potrebbero essere svolte in-house, senza alcuna società esterna, risparmiando 10 milioni di IVA l’anno, 50 mila euro di compenso per il commissario straordinario Massimo Primavera più una serie di costi nascosti che quasi ogni giorno emergono dal carrozzone palermitano. In 9 anni, aggiungeva il giornale, lo Stato ha trasferito a titolo di finanziamento straordinario 850 milioni al comune di Palermo letteralmente bruciati in una situazione che definire fallimentare è poco. Al punto che ancor’oggi, la notizia è del Giornale di Sicilia del 20 marzo 2014, la GESIP s.p.a. continua a sopravvivere ma 1.700 suoi dipendenti (guarda caso, si parla di 200 unità in più, pari al 13,33%, rispetto a quelli della notizia di tre anni fa, sic!) sarebbero coperti con la cassa integrazione in deroga fino a fine giugno, ma dal primo luglio sono senza paracadute, anche perché la Regione aveva già annunciato l’impossibilità di trovare nuove risorse per la copertura.

Ora, con Matteo Renzi. Nei millenni Roma ha collezionato debiti a non finire e ogni genere di rimedi. Il decreto salva Roma, dopo essere stato bocciato in due precedenti occasioni, ha avuto nelle scorse settimane una definitiva, terza versione. Nella prima fu Giorgio Napolitano a premere sull’esecutivo di Enrico Letta per rinunciare al decreto legge salva Roma perché un atto legislativo del Governo può adottarsi solo in casi di straordinaria necessità e urgenza, qualità che nella fattispecie mancavano così da pregiudicarne l’approvazione. La reiterazione di alcune norme del Salva Roma, secondo tentativo, nel decreto legge Milleproroghe, pur evidenziandosi l’assoluta illiceità di riproporre norme contenute in un decreto già rigettato, ha proseguito il suo iter parlamentare senza clamori ma anche senza peraltro giungere a destino per la ferma ostruzione delle opposizioni. Tenendo conto del fatto che già in passato si era provveduto al salvataggio dell’amministrazione capitolina dal default finanziario (nel 2008 il debito pregresso fu accollato per 12 miliardi ad una gestione commissariale), il governo, per quanto incomprensibilmente (ora per Roma sì ma nel 2013 un’identica supplica di salvataggio da parte di Napoli no, per l’opposizione della Corte dei Conti alla concessione del beneficio, e nel 2012 la città di Alessandria semplicemente abbandonata al suo default senza pianti e rimpianti), è nuovamente intervenuto concedendo al Campidoglio 600 milioni di euro. Sia pure sub conditione di (futuri) energici piani di risanamento di bilancio che è facile previsione non sarà agevole rispettare e che lo stesso partito democratico aveva rifiutato di accogliere in sede di discussione parlamentare degli emendamenti provenienti dalla senatrice Linda Lanzillotta di Scelta Civica, facente parte della stessa maggioranza di governo, tesi a far tassativamente dipendere il soccorso di Roma dalla riduzione degli organici del Comune, inutilmente pletorici e dall’eliminazione di numerose società controllate e/o partecipate. Non ci si dovrebbe stupire se, al momento del redde rationem, la maggioranza si sia squagliata come neve al sole ed abbia rinunciato ad un eccessivo rigore. Il sindaco Marino ha deplorato i disservizi di ACEA s.p.a., controllata al 51% dal Campidoglio, nella quale una lotta di potere all’interno dei vertici della società cui non è estraneo lo stesso sindaco causano il forte rischio che i dissapori della società si sostanzino in oneri addizionali da trasferire su consumatori e contribuenti incolpevoli. L’ATAC, acronimo di Azienda Tramvie ed Autobus del Comune di Roma, società per azioni concessionaria del trasporto pubblico romano e di alcuni comuni della provincia di Roma e di Viterbo , è interamente controllata da Rona Capitale, ha 12 mila dipendenti e un fatturato di circa 1,2 miliardi di euro che, per il 70% circa, è dato dai contributi pubblici che in totale ammontano a circa 3 miliardi di euro. Malgrado il vistoso foraggiamento pubblico, la società perde in termini operativi quasi 700 milioni di euro e, nel tempo, pare abbia collezionato un debito di oltre 500 milioni di euro. È, quindi, come al solito, a carico e pesa sulle spalle degli ignari contribuenti. AMA s.p.a. fornisce servizi diversi alla comunità romana e, principalmente, si occupa di raccolta dei rifiuti della città. Risulta che dal 2009 sia alle prese con gli interessi su di un debito che ammonterebbe a 600 milioni di euro.

Risulta altresì – come riferisce Marco Fattorini (in partnership con Leoni Blog, LINKIESTA, 28 febbraio 2014) un’informazione sconcertante: Dall’amministratore delegato dell’AMA s.p.a., abbiamo appreso l’altro ieri che dei 7800 dipendenti anche mille in taluni giorni non si presentano al lavoro. Uno studio di Ernst & Young parla di un disavanzo strutturale di circa 1,2 miliardi di euro l’anno. E Roma ha 62 mila dipendenti, tanti quanti sono gli abitanti della città di Benevento (fonte: Andrea Cuomo, Il Giornale, 1 marzo 2014). Mai che per Roma e le sue disastrate società si provveda ad un salutare ridimensionamento. Al massimo, si pensa di farlo. In futuro. Eppure esistono precedenti illustri di sofferte decisioni non rinviabili. Swissair dal 1931 al 2002 ha operato nel mondo con indubbia eccellenza tanto che il famoso giornalista d’aviazione Sepp Moser poté scrivere in un articolo: La Swissair era senza dubbio una delle migliori compagnie aeree del mondo, forse la migliore. Già nel 1990 molte compagnie aeree avevano accusato perdite a causa della crisi mondiale, della Guerra del Golfo e dell’aumento dei costi delle operazioni. La guerra dei prezzi innescata dalla liberalizzazione per tutte le compagnie aeree, aveva poi peggiorato la situazione. Il 2 settembre 1998, come se non bastasse, capitò la più grave tragedia della storia della società, un MD-11, volo Swissair SR 111, sulla tratta New York – Ginevra, cadde in mare ad Halifax in Canada provocando 229 vittime. Gli attentati alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 causarono una profonda crisi del mercato aereo e determinarono una svalutazione di tutte le attività. A questi eventi nemmeno Swissair rimase estranea e ne subì i contraccolpi ma, di suo, aggiunse alcune operazioni di acquisizione di altre compagnie aeree, per quanto fortemente indebitate, per garantirsi una dimensione che la globalizzazione in atto richiedeva per controllare e contenere i costi, che, anziché migliorare la situazione finanziaria la aggravarono fino alla conclusione del suo declino nel 2002 con la dichiarazione di fallimento. Detroit, principale centro del Michigan, la capitale americana dell’auto, diciottesima città degli Stati Uniti con 701.475 abitanti (4,3 milioni nell’area metropolitana) ha ormai meno della metà della popolazione che aveva negli anni ’50. Il 18 luglio 2013, il governatore Rick Snyder ha dichiarato fallita la città che non era in grado di ripagare le obbligazioni municipali emesse, per un valore complessivo di 18 miliardi di dollari ed il nuovo sindaco della città dovrà vedersela con l’amministra-tore straordinario nominato dal governatore del Michigan dopo il tracollo finanziario della città. Chiudere società che producono solo debiti e perdite sarebbe saggio ma, per come il governo di Matteo Renzi si sta muovendo, si può immaginare che egli tema incontrollabili disagi sociali e la contemporanea dissoluzione di simpatie e di voti. Così l’esecutivo, nel primo vero Consiglio dei ministri della sua storia, ha benedetto l’ultima edizione del salva Roma inchinandosi a odiose forme di assistenzialismo misto a consistenti dosi di clientelismo, con boriosa distorsione della normativa giuridica per via dell’uso spregiudicato, ripetitivo ed ingiustificato dei decreti legge, senza contrastare, come si dovrebbe, inefficienze, disorganizzazione e insufficienze sistematiche con misure strutturali adeguate e immediate per combattere un assenteismo eccessivo nonché rendimenti e produttività inadeguati. È logico prevedere che risultati sempre insoddisfacenti continueranno a causare danni. Ignazio Marino, sull’argomento, ha fornito un chiarimento illuminante: A Roma bisogna ancora pagare i terreni espropriati nel 1957 per costruire il villaggio Olimpico. Campa cavallo … altro che debito pubblico!

Il rapporto debito/PIL

Il debito e l’andamento del rapporto fra tale debito ed il prodotto interno lordo (o PIL, valore annuale dei beni e servizi prodotti nel Paese) rimane un tema che Matteo Renzi cerca di affrontare con piglio spavaldo ed incrollabile ottimismo sull’onda del successo di immagine che ha saputo creare intorno a sé.

Per capire bene i termini del tema è utile riassumere brevemente l’evoluzione nel tempo del rapporto debito – PIL in esame. Nel 1963 il debito pubblico italiano tocca il livello minimo dalla fine della seconda guerra mondiale (32,60% del PIL). Da lì – e fino all’inizio degli anni ‘90 – il debito pubblico comincia a crescere ininterrottamente sotto l’effetto tanto dell’esaurimento del boom economico che ha il potere di rallentare la crescita economica quanto dei guasti recessivi indotti dalle crisi petrolifere degli anni ’70. Nel sottofondo si colloca una politica economica dei governi di centro-sinistra ambiziosa quanto inconcludente. Ma spendacciona. A partire dai primi anni ’60, con diverse combinazioni e l’apporto di vari partiti facenti parte del c.d. arco costituzionale prendono avvio i governi progressisti – dal monocolore DC del 1962 condotto da Amintore Fanfani al primo governo organico di centro-sinistra (fine 1963) presieduto da Aldo Moro e partecipato, per la prima volta, direttamente dal Partito socialista (il cui leader Pietro Nenni ne ottiene la vicepresidenza) – fino al 1976 quando si realizza la nuova e diversa esperienza dei governi di solidarietà nazionale per il progressivo coinvolgimento del PCI nelle maggioranze parlamentari e la promozione del c.d. compromesso storico. Non si può negare che, grazie al Welfare State, siano stati, questi, anni di sensibili conquiste sociali indotte da un inoppugnabile miglioramento delle condizioni di vita della popolazione ma non si può dimenticare, insieme, il rallentamento economico non più sinora interrotto, non già per ricuperare ma anche solo per riuscire ad avvicinare i tassi di sviluppo degli anni del miracolo economico italiano e i provvedimenti di vago sapore keynesiano di dilatazione della spesa a sostegno della produzione sperando che essa ne possa supportare la crescita, eventualità mai verificatasi vincente in nessuna epoca storica ed in nessuna parte del mondo. È anche il periodo, un po’ allegramente spensierato, della nazionalizzazione dell’industria elettrica che, pur acclamata come un’immensa vittoria sociale, dà vita ad un enorme carrozzone (l’ENEL) nel quale 60 miliardi di lire spariscono immediatamente, prima ancora di cominciare, per aumentare stipendi e salari (come riconoscerà persino il repubblicano on. Ugo La Malfa, uno dei più autorevoli esponenti del centro-sinistra), delle parole in libertà di don Lorenzo Milani (L’obbedienza non è più una virtù) o di Carlo Donat Cattin (Non sono il ministro del Lavoro, sono il ministro dei lavoratori) o di Luciano Lama che su l’Unità teorizza – in totale antitesi al suo mentore Carlo Marx – il salario quale variabile indipendente del sistema economico, della Popolorum progressio di Paolo VI, di Aldo Moro che inventa la strategia dell’attenzione verso il PCI, della formulazione dello Statuto dei lavoratori e dell’attuazione delle regioni a statuto ordinario che sancisce l’esistenza in Italia di regioni di serie A (quelle speciali) e di regioni di serie B (quelle ordinarie). Per converso, sul piano delle cose concrete, l’ambizioso e strombazzato progetto di programmazione economica avrà ben pochi riscontri tangibili tanto da cadere ben presto nel dimenticatoio. Tanto fumo, in altri termini, ma poco arrosto. Negli anni ’70, per quanto già sensibilmente maggiore rispetto a quello degli altri Paesi europei (a inizio 1980 quasi il 60% del PIL), i governi scelgono di contenere e temperare il debito pubblico italiano con una progressiva inflazione che viene alimentata dall’intervento della Banca d’Italia sul mercato per l’acquisto – foraggiato con emissione di moneta – di titoli di stato non altrimenti collocati. L’orientamento cambia radicalmente nel decennio degli ’80 per effetto del disallineamento fra Ministero del Tesoro e Banca d’Italia che viene sciaguratamente esonerata dall’obbligo di intervenire sul mercato primario per raffreddare i tassi di mercato. Il che lascia intendere come la variazione dell’indebitamento dipenda, certamente e principalmente, dall’andamento economico generale ma come, anche, l’attività del governo porti con sé precise responsabilità perché ogni sua mossa provoca sempre inevitabili rimbalzi sull’economia. La mutata propensione, senza inflazione né emissione di moneta da parte della banca centrale, in ogni caso, fa sì che il debito cresca senza freni né controlli, considerati due fatti: la spesa pubblica non diminuisce perché nessuno si cura di imbrigliarla (anzi, il Welfare State costa un’enormità, molto al di sopra delle risorse ad esso allocabili) e, per converso, non viene ricercato alcun sano equilibrio finanziario che, se non si limita la spesa, si può ricuperare solo sul versante dell’odiosa imposizione fiscale. Nel 1994, così, si raggiunge un poco invidiabile record negativo e l’indebitamento pubblico – quando quelli di Francia, Germania e Regno Unito si collocano fra il 40 e il 50 per cento – schizza al 121,80% del PIL. Successivamente, il rapporto rimane sempre in forte tensione perché l’aumento del PIL sta costantemente al di sotto dell’incremento del debito. Lo stesso debito pubblico vola quindi verso nuovi record storici. Nel 2012 il debito era al 127,00% del PIL, nel 2013 arriva a 132,60%. Il debito pubblico italiano, come segnala Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione Europea di base in Lussemburgo e specificamente delegato a generare a livello europeo dati di comparazione fra paesi e regioni dell’Europa, nel secondo trimestre del 2013 si é attestato al 133,30% del prodotto interno lordo confermandosi il secondo più elevato in Europa e continuando ad aumentare a ritmi ben superiori rispetto alla media dei Paesi UE. Stranamente, sembra non si possa far niente per arrestarlo. Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha raccomandato (secondo alcuni sarebbe meglio dire imposto) personaggi, a suo giudizio, di sicuro valore, anche internazionale, di grandi qualità e capacità professionali e di ampia autorevolezza ma i Governi che dalla raccomandazione presidenziale sono scaturiti (del prof. Mario Monti e di Enrico Letta) – tecnici, con un esercito di esperti ma senza grandi frutti, di larghe intese, con importanti progetti ma senza valide idee, del presidente, con presupposta saggezza ma senza apprezzabili risultati e, in ogni caso, senza una diretta legittimazione democratica e costituzionale fornita dal voto popolare – non hanno, a dire il vero, concluso gran che. Nessuna riduzione del debito in ogni caso. Nessuna politica di taglio della spesa pubblica soprattutto: non tagli lineari né tagli di altra natura, specie di quelli che mostrano la capacità selettiva che è ora tanto gradita al Presidente. Fermi. Siamo ossessionati dalla riduzione del debito per compiacere l’Europa ma dagli impegni con l’Europa rimaniamo distanti anni luce malgrado il fatto che, in realtà, stando almeno a Vito Lops (Il Sole – 24 Ore, 3 dicembre 2013), parrebbe che l’Italia è il Paese che ha visto crescere meno di tutti, nell’area euro, il debito pubblico. Poiché nel rapporto, tuttavia, non basta tener conto solo del numeratore (debito) ma occorre considerare insieme il denominatore (PIL) e, sempre secondo Vito Lops, il PIL dal 2007 al 2013 … è crollato in Italia dell’8,65% mentre nello stesso periodo è aumentato del 4,25% in Germania ed è rimasto stabile (+0,67%) in Francia (senza dimenticare il -24% della Grecia, il -8% di Cipro e Slovenia e il -7% dell’Irlanda).

Gli alti costi dello Stato sociale

Per il rispetto degli accordi europei – il discorso qui si fa non solo italiano ma investe tutti gli Stati europei – bisognerebbe rispettare il rapporto debito/PIL del 60% ed avere un deficit pubblico non superiore al 3% del PIL. Vale il condizionale e, forse, è il caso di dirlo: teoricamente. Perché al di là di Lussemburgo, Estonia e Slovacchia che, a parere di Vito Lops (Il Sole – 24 Ore, 3 dicembre 2013) riescono a stare virtuosamente sotto la soglia del 60%, tutti gli altri Paesi ruotano almeno nell’intorno dell’80%. Vi sono in merito opinioni e dati diversi ma l’ordine di grandezza e la logica del ragionamento non mutano a causa di queste possibili divergenze. Meglio, a parte la Grecia, dell’Italia, certo, ma senza così straordinarie performances. Forse, vale la pena di pensare che i calcoli europei siano assai più ottimistici che realistici, da iscriversi più nel libro dei sogni che nel registro delle realtà possibili. Non sono, tuttavia, sbagliati. Si potrà eventualmente discutere circa il valore più confacente da attribuire ai parametri indicati. Ma non è lecito disconoscere la validità del principio, indipendentemente dal fatto che lo chieda l’Europa. La limitazione ed il controllo del debito pubblico rispondono a corretti criteri di conduzione della persona, della famiglia, dello Stato. Lo stesso discorso va ripetuto per il contenimento e la vigilanza del deficit. Perché, allora, la realtà è differente? Si rifletta sul fatto che la scienza politica é stata costretta a riconoscere come l’indiscriminata propagazione dei diritti sia la principale causa di crisi del c.d. Welfare State che, nel corso del ‘900, ha sostituito nel mondo occidentale lo Stato di diritto dandosi carico di realizzare un’utopia, la giustizia sociale, obbiettivo dai contorni quanto mai fantomatici ed indefiniti, privo anche di una sola regola per stabilire ciò che sia giusto, davvero e per tutti, dovendosi piuttosto ammettere che solo applicando criteri e poteri costrittivi, ancorché ispirati da nobili motivi caritatevoli, un qualsiasi governo possa conseguire una qualche giustizia positiva (sociale o distributiva che sia). L’intervento autoritario apre all’arbitrio – dato che, nel quotidiano, si traduce sostanzialmente in poco più della protezione di interessi acquisiti o della creazione di nuovi privilegi – e, di contro, induce l’erosione e la distruzione di ogni libertà personale. Presuppone, per di più, un accordo generalizzato – che non c’è né può esistere nel concreto – circa l’importanza relativa dei differenti scopi tangibili perseguiti da ciascuno. Purtroppo la civiltà di massa, pur costruita a supporto e salvaguardia dell’uomo, rischia di rinvigorire unicamente lo Stato ed accrescere la sua ingerenza nella vita umana in pregiudizio della cultura liberale da cui, in fondo, era partita. Uno spirito religioso fondamentalista vorrebbe l’individuo perfetto ma non c’è tiranno più inflessibile e dannoso di colui che si crede mandato da Dio per curare il bene degli uomini. É la Santa Inquisizione che, non potendo o volendo abbandonare gli esseri umani all’errore, li manda alla tortura ed al rogo, lacera loro il corpo per purificare e salvare l’anima. É il Robespierre che per abolire l’ingiustizia, crea il governo della virtù ma, di fatto, pratica il Terrore che è, piuttosto, il governo della paura. Oppure è il comunismo (o il fascismo o il nazismo, non ci sono grandi differenze) che, nella foga di creare l’uomo nuovo, eleva ideologia e politica al rango di verità assoluta e, rimuovendo la religione, stabilisce la propria dimensione totalitaria. La follia di Adolf Hitler porta ai 50 milioni di morti della seconda guerra mondiale. Robespierre, Stalin e Hitler hanno messo in pratica i modelli di società proposti da Jean Jacques Rousseau, retti dalla Volontà generale (art. 6 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: La legge è l’espressione della volontà generale). Quanto più l’autorità si impanca a dispensatrice di felicità per l’uomo, tanto più si riduce, con l’andar del tempo, la libertà di ciascuna persona umana e sono seri guai per tutti. Sostiene Alain Finkielraut che la storia dovrebbe averci insegnato che niente è peggiore per la morale e per il mondo che la visione morale del mondo. Nel superamento dello Stato di diritto non si è badato a spese. Il Welfare State, lo Stato sociale, è intrinsecamente malato ed è malato di una malattia inguaribile perché la giustizia sociale sarà sempre un miraggio ma costa maledettamente cara e la politica, come medico, non la sa guarire. I nostri governi, quale ne sia il colore – ma l’emergenza degli Stati Uniti e l’elevato debito dei principali Paesi europei mostra che altrove lo stato dell’arte non è molto dissimile da quello nostro – non riescono a frenare la dilatazione della spesa pubblica nelle cui pieghe i politici trovano sempre il modo di ricavare per sé una rendita politica. Più o meno in tutti i Paesi occidentali a partire dagli anni ‘60 la spesa pubblica è cresciuta enormemente (questa, come diceva Adamo Smith, deve soddisfare tre finalità: proteggere la società da violenza ed invasioni esterne, difendere i membri della società dall’ingiustizia e dall’oppressione con un’opportuna e corretta amministrazione della giustizia, curare la creazione e la conservazione di opere e istituzioni pubbliche che travalicano interessi ed orizzonte dei singoli) perché a tali obbiettivi primari, che si possono definire di Stato minimo, si sono aggiunti quelli dello Stato sociale. Quei Paesi che, pur in questa prospettiva, hanno saputo dosare la spesa o calibrare una lievitazione dell’imposizione fiscale che non risultasse eccessivamente discosta dalla crescita delle uscite oggi si trovano con moderati livelli di debito. Gli altri Paesi, al contrario, che hanno speso tranquillamente ma incoscientemente, hanno creato uno squilibrio finanziario con larghi deficit che, cumulati, hanno originato un debito imponente. È il caso italiano e ciò spiega, fra l’altro, come mai lo sviluppo e la crescita economica del nostro Paese si trovino sempre nelle ultime posizioni delle varie classifiche mondiali. I nostri governanti hanno sempre cercato di rimediare attivando al massimo tiepide manovre congiunturali che non sono riuscite, né potevano, frenare il dilatarsi della spesa pubblica. Mai emanando provvedimenti strutturali come sarebbe stato necessario fare dato che, quando le uscite superano le entrate, non c’è altra soluzione che smettere di spendere o soppesare e vagliare le spese perché non debordino. Una politica, in aggiunta, che fa sperare nelle riforme e poi non le fa per non scontentare nessuno è un controsenso ma da noi è la realtà. D’altronde, le riforme vere non stanno a cuore né alla politica né alla Pubblica amministrazione, votate a non modificare lo status quo e non interessano nemmeno i partiti o le corporazioni sindacali che hanno unicamente a cuore il mantenimento dei loro privilegi e dei loro interessi acquisiti. Si è mai sentito di qualcuno fra i 40 mila che dal 1974 hanno goduto di una pensione senza aver mai versato contributi perché beneficati dalla famigerata legge Mosca, che sia ancor oggi sopravvissuto all’inesorabile passare degli anni e che abbia rinunciato al vitalizio o abbia denunciato ciò che è un vero e proprio scandalo? Domanda retorica, dal Presidente della Repubblica in giù. Le riforme, forse, non interessano nemmeno la Società civile che, almeno per la parte che conta, non è detto che seriamente le voglia. La storia del nostro Paese è, infatti, di una cultura poco pragmatica, spesso anti-individualista e anti-meritocratica, che si bea in una forma di felice corporativismo, dapprima affermato in grande stile dal fascismo e poi raccolto e perfezionato dalla Democrazia Cristiana, da cui non deriva uno spiccato senso della comunità (Fatta l’Italia, ora dobbiamo fare gli Italiani, proverbiale affermazione attribuita a Massimo d’Azeglio, è un programma probabilmente non ancora giunto a definitivo compimento e non è proprio un caso privo di significato il ritrovarsi fra i piedi da noi proverbi come quello toscano: meglio un morto in casa che un pisano all’uscio, il quale denota uno spirito civico che non riesce a superare il limite angusto del proprio campanile) e la cui massima aspirazione è forse, gattopardescamente, che tutto cambi perché non cambi niente. È ancora di sinistra chiedere che lo Stato continui a spendere denaro pubblico e opporsi ai tagli di spesa, e quindi a un alleggerimento della pressione fiscale? È la domanda che Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (Il liberalismo è di sinistra, Gruppo Editoriale Il Saggiatore s.p.a., Milano, settembre 2007), pur con il cuore che per loro ha sempre battuto a sinistra, si pongono senza darsi una risposta, persino dove ammettono che il sindacato ha obbligato Prodi (che ha immediatamente capitolato) ad abrogare la legge Maroni che portava l’età minima per andare in pensione a 60 anni, una riforma invero assai utile varata dal Governo Berlusconi ma bocciata dal successivo Governo Prodi. La campagna elettorale di Segolène Royale ricalcava la vecchia piattaforma socialista: maggiore equità retributiva, aumento degli stipendi minimi, nessun cambiamento della legge sul lavoro, che tutela i lavoratori anziani a scapito dei giovani, estromessi dal mercato del lavoro. Una strada certa verso il declino. Di grazia, che differenza c’è fra questi argomenti socialisti in Francia e l’orientamento di un qualsiasi raggruppamento di centro-sinistra in Italia negli ultimi 50 anni?

Buon ultimo, dopo il Patto di stabilità e crescita del 1997, il trattato internazionale del Fiscal compact, firmato il 2 marzo 2012 da 25 dei 27 stati membri dell’Unione Europea, Italia inclusa, rincara le dosi di austerità e richiede si riduca di un ventesimo la porzione del rapporto debito pubblico/Pil che supera il 60%. Per quanto riguarda il nostro Paese ciò si traduce (a parametri di debito, PIL e inflazione invariati) in manovre da oltre 50 miliardi di euro l’anno. Sarebbe un massacro, per usare un francesismo. Così Enrico Marro su Il Sole – 24 Ore del 20 marzo 2014.

Austerità e patrimoniali

Diceva Ronald Reagan che il contribuente è uno che lavora per lo stato, ma senza avere vinto un concorso pubblico. Un’eccessiva propensione all’austerità della politica economica causa una inevitabile depressione nel contribuente. Essa, malgrado tutto ciò e la ragionevolezza di tutto ciò, ha parecchi laudatores non solo in Europa ma persino in Italia. Pier Carlo Padoan, Ministro in carica dell’Economia e delle Finanze del Governo Renzi, è, ad esempio, a favore della tassazione del patrimonio perché, a suo dire, le imposte sui consumi e quelle patrimoniali sono buoni tributi per la crescita economica se i proventi possono ridurre le imposte sul lavoro e sulle imprese. Angela Merkel e i socialdemocratici tedeschi condividono la tesi per ragioni affatto diverse e che non si rivelano più apprezzabili ma, semmai, soltanto più comprensibili. Per la Cancelliera tedesca le famiglie italiane dei ceti medi e minori possederebbero una ricchezza maggiore di quella delle famiglie degli altri Paesi dell’Unione europea e degli Usa e ciò darebbe spazio di applicazione ad una patrimoniale. Per i socialdemocratici la tassazione del risparmio sarebbe invece una questione di equità, a bilanciare i conti di quei lavoratori o pensionati che non possiedono un patrimonio. Come si vede, le opzioni spaziano banalmente da posizioni ideologiche dure e pure a rivendicazioni di scadente propaganda politica: incidere rapidamente sul debito ed estendere la portata di lodevoli principi di equità. Con siffatti vagheggiamenti, se si pensa di riavviare la crescita aumentando la tassazione, l’irrigidimento dei consumi e la caduta degli investimenti così come la continua emorragia di posti di lavoro continueranno ad alimentare disperanti preoccupazioni. In ogni caso, la tassazione del patrimonio, anche se non è frutto di discutibile invidia sociale che, peraltro, non ha mai prodotto niente di buono, non sfugge ad una critica elementare ma oltremodo chiara. Ridurre il patrimonio significa restringere la base da cui si ricava il reddito. Questo, di conseguenza, in futuro non potrà che diminuire. Sarebbe, detto altrimenti, come segare il ramo sul quale ci si è seduti. Un’iniziativa, a tutto concedere, assai poco intelligente.

Si danno sintomatiche esperienze, anche recenti, di riduzione delle imposte sul reddito che hanno sortito comprovati e benefici effetti su crescita e occupazione: nel 1988 in Austria la diminuzione del 20% ebbe, per contropartita, un aumento delle entrate tributarie del 65% che portò al pareggio di bilancio; nel 1998, con la riforma promossa da José Maria Aznar, l’aliquota massima a valere sul reddito delle persone fisiche venne abbassata in Spagna dal 53,00% al 48,50% e quella minima dal 25,90 al 19,90%, il che permise una contrazione del deficit del 7% consentendo la parità di bilancio, riducendo di 13 punti il debito e creando 4 milioni di posti di lavoro in 8 anni. Fra l’altro, sia in Spagna che in Gran Bretagna gli interventi sull’imposizione fiscale a calmierare la tassazione non furono rinnegati dai successori. La politica di José Maria Aznar fu ripetuta dal socialista José Luis Rodríguez Zapatero, l’ammaestramento di Margaret Thatcher fu seguito dai laburisti Tony Blair e Gordon Brown. Da John Fitzgerald Kennedy a Ronald Reagan (democratico il primo e repubblicano l’altro) l’aliquota fiscale marginale sul reddito negli Stati Uniti si contrasse progressivamente ma, contestualmente, il gettito dei ricchi si moltiplicò. Quando Ronald Reagan, stranamente, pensò invece di portare l’imposizione sui guadagni di capitale dal 14% al 28%, il ricavato si ritrovò stabilmente rimpicciolito a un terzo del suo valore normale. È l’effetto che da noi hanno avuto l’IMU che ha fruttato un crollo del mercato immobiliare e dell’industria delle costruzioni e la perdita di qualche centinaio di migliaia di posti di lavoro, l’elevazione della cedolare sulle rendite finanziarie dal 12,50 al 20,00% che ha causato un minor afflusso di risparmio alla Borsa creando un altro ostacolo alla ripresa e l’aumento dell’IVA che ha fatto stramazzare i consumi.

I rimedi di Matteo Renzi

Matteo Renzi quando ancora era candidato Presidente del Consiglio sosteneva che la Cgil è quanto di più lontano da certe mie convinzioni ma proponeva, come strumento per favorire la crescita, un programma di vetero taglio socialista: un sussidio universale per tutti i disoccupati. L’impegno è il quarto dovere dello Stato non menzionato esplicitamente da Adam Smith ma indicato da Milton Friedman (Milton e Rose D. Friedman, Liberi di Scegliere, Longanesi & C., 1981) ed è suscettibile di grandi abusi e quindi non può né deve essere indiscriminato e va usato con molta cautela ma non può essere evitato e consiste nel proteggere i membri della comunità che non possono essere considerati individui responsabili. Aggiungeva altresì temi non economici sui quali non vi sarebbe urgenza di intervento immediato ma che sono graditi alla sinistra: modifica della Bossi-Fini con introduzione dello ius soli per gli immigrati, cioè concessione della cittadinanza italiana per chi nasce nel nostro territorio, apertura alle unioni civili e alle coppie gay su cui, sono state sue parole, non possiamo fare finta di niente anche se non piace a Giovanardi. Le unioni al di fuori della famiglia tradizionale potrebbero non avere costi, se non forse per la rincorsa all’ottenimento di benefici di norma predisposti per le famiglie normali e ciò a me sembra l’unico, tangibile e pragmatico obiettivo del fragoroso can-can sollevato: una banale questione di palanche. Con lo ius soli il rischio di maggiori oneri potrebbe invece essere certo ove torme di extracomunitarie volessero riversarsi in Italia per partorire approfittando dell’occasione e ricuperare a favore dei propri figli una cittadinanza italiana che, essendo a costo zero, magari non servirà a niente ma che, comunque, non presenta controindicazioni evidenti. Nessuna, delle due idee, propizia il superamento della crisi economica e così la crescita del Paese o l’abbattimento del suo debito. Più recentemente, da Presidente del Consiglio ormai insediato, ha promosso un modello redistributivo che richiama alla memoria il populismo di tipo argentino e di stampo peronista di 50 anni fa. La principale misura da lui sinora raccomandata consiste infatti nella riduzione di 10 miliardi di imposte sul reddito. Essa assicura 1.000 euro l’anno a ciascuno dei 10 milioni di lavoratori dipendenti che guadagnano sino a 1.500 euro al mese. Renzi ha contestualmente annunciato l’aumento al 26 per cento della cedolare secca sulle rendite finanziarie che va ad aggiungersi al già avvenuto aumento, dal 12,50% al 20%, della tassazione del capitale. Questo, al momento, risulta essere colpito da una mini patrimoniale: l’imposta di bollo del due per mille che, in realtà, si calcola sul patrimonio e non sui guadagni realizzati come invece succede con il capital gain, altra imposizione che deriva da una effervescente disponibilità a tassare. Senza contare un’ulteriore imposta, fra le più recenti: la Tobin tax, fortemente voluta da Mario Monti per deferente ossequio verso il suo maestro James Tobin. O l’introduzione dell’IVAFE per gli investimenti esteri (partecipazioni di capitale, obbligazioni, valute estere, depositi e conti correnti bancari, polizze di assicurazione sulla vita e di capitalizzazione stipulate con compagnie di assicurazione estere, metalli preziosi, diritti all’acquisto o alla sottoscrizione di azioni estere. In buona sostanza attività finanziarie detenute all’estero) che non è così chiaro come si concili con la libera circolazione di uomini e capitali garantita dai trattati comunitari in tutta Europa. Il cumulo delle varie imposte che nel nostro Paese si sono venute concentrando sulle rendite finanziarie raggiunge ormai il 40% circa e colloca la pressione fiscale italiana ai massimi livelli europei.

Ci sono, a mio avviso, almeno due equivoci di fondo che, sul punto, vanno assolutamente chiariti. Riconoscere a quasi 10 milioni di soggetti IRPEF fino a 1.000 euro in più in busta paga all’anno, se si concretizzerà, potrà magari ravvivare un poco i consumi. Purtroppo, per profittarne, occorre già avere una busta paga, il che, anche quando il reddito è verosimilmente inferiore ai 25 mila euro, non è da tutti. Così, non lo è per i disoccupati, gli esodati, i lavoratori non dipendenti: artigiani, commercianti, lavoratori autonomi, pensionati. Con un danno aggiunto dato che chi non verrà favorito dal provvedimento finirà per subire un’ingiustizia addizionale: essi, per via di una semplice imposizione dall’alto, si troveranno in svantaggio rispetto ai favoriti. Nel merito, traspare un pizzico di ideologica demagogia. Se, inoltre, a compensazione, si promuove un vero e proprio accanimento nella tassazione sulle rendite finanziarie il grado di ingiustificata demagogia – che, c’è da crederlo, non porterà lontano – (togliamo ai ricchi per dare ai poveri) indubbiamente aumenta. Non è mai stato possibile ricavare soddisfazioni da aspettative costruite su simili presupposti ed è facile riscontrare una profonda ignoranza dei mezzi veramente opportuni per favorire e dare impulso alla crescita ed alla ripresa dell’economia. Il lavoro viene creato nell’impresa e dall’impresa. E da nessun altro. È il capitale che attira il lavoro e non si dà assolutamente mai nessuna ipotesi contraria. Non sono i sindacati a procurare il lavoro, non sono i giudici a garantire il lavoro. Meno che mai i politici che possono, al massimo creare intralci come nel caso di specie. Il prof. Gino Zappa definiva l’azienda una coordinazione economica in atto istituita e retta per il soddisfacimento di bisogni umani. Gli elementi che la caratterizzano sono il capitale ed il lavoro mentre la coordinazione è assicurata dall’imprenditore. La realizzazione dei beni e servizi prodotti dall’attività dell’azienda deve consentire la remunerazione dei c.d. fattori di produzione: appunto il capitale ed il lavoro oltre, beninteso, l’apporto dell’imprenditore. Se ciò non è fattibile l’azienda inaridisce e muore. Il bilanciamento di tali remunerazioni (salario al lavoro e utile al capitale) è compito proprio dell’economia aziendale e lo Stato – che ne requisisce una parte sotto forma di imposte – deve stare ben attento a non stravolgere il sistema, pena la distruzione dello stesso. Usiamo pure l’espressione rendita perché, convenzionalmente, ci si possa facilmente intendere sul significato, visto l’uso corrente della parola che oggigiorno se ne fa. Certo, però, che la remunerazione del capitale di rischio è intrinsecamente differente dalla remunerazione dei titoli pubblici. Questa, intanto, è prevalentemente improduttiva o molto scarsamente produttiva ed è una tipica rendita esclusivamente finanziaria. Il capitale di rischio è, al contrario, il normale mezzo di finanziamento dell’azienda e le azioni e le obbligazioni vengono negoziate nella Borsa valori, il mercato tipico del settore che agevola l’incontro fra risparmiatori ed investitori. Penalizzare la raccolta del capitale ed il regolare funzionamento della Borsa ostacola gravemente l’ordinato andamento dell’economia, specie in un Paese come l’Italia dove già le aziende sono frequentemente sottocapitalizzate. Ciò non può che andare a totale detrimento della crescita e del rilancio del Paese. Potrà non condividersi in pieno la teoria di Luigi Einaudi che asseriva come tassare il reddito mandato a risparmio e poi il reddito derivante dal risparmio fosse una doppia tassazione ma si accolga almeno il principio che il risparmio è condizione indispensabile all’investimento cosicché l’investimento possa favorire la crescita economica. Senza di che il rapporto debito – PIL è ineluttabilmente destinato ad aumentare, un’esperienza già vissuta dopo il 1992 con il governo Amato: in quegli anni le privatizzazioni ridussero il rapporto debito – PIL di oltre dieci punti, ma poiché non si fece nulla per la crescita, nel decennio successivo quel beneficio ce lo siamo mangiati come saggiamente ricordano Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (Corriere della Sera, 14 novembre 2011).

Matteo Renzi, purtroppo, si sta orientando diversamente. Spiace constatarlo. Non per aver stabilito un filo diretto con il segretario della Fiom, Maurizio Landini – ciò potrebbe essere esclusivamente una scelta cinica di mera opportunità per indebolire la Cgil, visto che Landini è diventato il principale oppositore della Camusso e che la Camusso, cordialmente ricambiata, non nutre grandi simpatie per Renzi – ma perché, seguendo il vecchio saggio che recita dimmi con chi vai e ti dirò chi sei il feeling fra i due potrà reggere solo a condizione di condividere nel tempo almeno qualche convinzione. Quanto a politica del lavoro il segretario Fiom in realtà la pensa in modo esattamente contrario come ha scritto in una lettera aperta recentemente pubblicata da Repubblica: c’è bisogno di più tasse, più spesa pubblica, più regolazione, dato che piena occupazione e reddito garantito vanno posti al centro della politica di governo. Togliere a chi ha e dare a chi non ha. Ogni arricchimento è ingiustificato e la proprietà privata è abusiva. Non è per caso che, ovunque il socialismo abbia detenuto il potere, l’economia ha sofferto travagli e danni enormi. Ogni indebolimento del capitale non fa che ridurre la sua presenza in azienda e le economie competono non solo nel produrre beni e servizi ma soprattutto nella tassazione dato che un regime fiscale leggero attrae più investimenti. Tutte le delocalizzazioni partono immancabilmente da questa considerazione di base. Tanto più la rimunerazione del capitale sarà scadente e ridotta, tanto più gli investimenti ineluttabilmente diminuiranno. Gli impianti non verranno rinnovati. La ricerca e l’innovazione deperiranno. L’azienda rinuncerà ad allargare la propria attività. Il livello di occupazione del personale al suo interno non verrà ampliato, semmai verrà compresso. Ovviamente, il pensiero del sindacalista è pienamente legittimo ma, dal punto di vista economico, è devastante. Renzi, per contribuire al miglioramento della situazione, dovrebbe prendere atto delle opinioni di Landini e comportarsi all’opposto perché il socialismo ha costantemente ignorato un principio di fondo: occorre creare la ricchezza prima di poterla ridistribuire. La crescita, in altri termini, resterà altrimenti un’aspirazione del tutto ipotetica. Sarà d’accordo Matteo Renzi? Non so e, forse, non lo sa nemmeno lui. Il governo, a ogni buon conto, mantiene al 12,50% il prelievo sui titoli pubblici come BOT, CCT e BTP, un tipo di investimento che ha una remunerazione priva di rischio. Si possono pensare due cose al proposito. Da un lato, ideologicamente, privilegiare il pubblico è una scelta di campo politica, non economica. D’altro canto, pragmaticamente, praticare un minor rendimento reale allontanerebbe il risparmiatore gli investimenti dai titoli di Stato e Dio solo sa quanto sia indispensabile, per i politici, alimentare la spesa pubblica con un sicuro rifornimento di risorse. La conseguenza immediata di questa scelta è che sul mercato sarà sempre più disincentivato il capitale di rischio delle imprese che sono parte vitale dei processi produttivi che generano la ricchezza del Paese e sarà per contro favorito un investimento in titoli di Stato che essendo unicamente un debito dello Stato, crea una rendita meramente finanziaria. Quel che anche Matteo Renzi sembra dimenticare, come d’altronde tutti i suoi predecessori, è che il finanziamento della crescita deve essere cercato e trovato nel taglio della spesa pubblica. Specie se inutile o di spreco. In caso contrario, le sue proposte, in quest’ottica, sono pure utopie da intellettuale progressista, eccentricità impraticabili. Facile proporre un discorso di sinistra già visto e promettere la felicità a tutti. Prospettare un programma impregnato da un’impostazione che, stando alle prime mosse viste, sembra volersi dare, non reggerà alla prova dei fatti. L’ipotesi di creare un’Agenzia nazionale per l’occupazione come polo di coordinamento e indirizzo dei Centri per l’impiego è, ad esempio, statalismo parolaio, un ennesimo carrozzone che costa e non produce alcun effetto. Piuttosto, se, come lui sostiene, i tagli ai costi della politica possono essere tecnicismi utili, buoni esempi che non fanno risparmiare grandi somme, essi, tuttavia, rivestono un forte senso psicologico che è insensato trascurare. L’economia e la ripresa sono fatte anche di ciò. Conta sul fatto che finalmente l’Europa metta al centro della propria azione la crescita e la lotta alla disoccupazione. Lo ha dichiarato al termine del vertice sulla sicurezza nucleare del G7 che si è tenuto a L’Aja nei giorni scorsi. Spero non pensi che l’Europa venga in nostro soccorso per toglierci le castagne dal fuoco. Sarebbe una folle fantasticheria.

© Carlo Callioni 2014