In Italia il ritratto dell’imprenditore continua ancor’oggi ad essere concepito in panni ottocenteschi attingendo, per descrivere lo stato della società e della convivenza civile, a quegli scrittori che in Inghilterra avevano prestato attenzione alle sventure della povera gente la cui sorte poteva commuovere e attirare umana comprensione e le cui avversità, lette senza una preventiva analisi sociologica di largo respiro, poteva sembrare, senza esserlo, tutta la verità. L’epoca di riferimento è il periodo vittoriano all’interno del quale, nell’intorno del 1870, si produsse la seconda rivoluzione industriale che non solo portò agli uomini il dono dell’elettricità ma fornì pure prodotti chimici e petrolio e tutti quegli altri beni durevoli che la tecnologia man mano avrebbe messo a disposizione contribuendo alla progressiva diffusione fra le gente dei beni di consumo a prezzi sempre più contenuti, capace di trascinare una risolutiva ed inarrestabile trasformazione del sistema produttivo che coinvolgeva il mondo economico e nel suo insieme l’intera sua organizzazione sociale. Il lavoro umano venne progressivamente sostituito dal lavoro svolto dalle macchine siccome caratterizzato da una indiscutibile maggiore rapidità di esecuzione e da una palese minor fatica dell’uomo, cioè da minori costi. L’Inghilterra, dopo la prima rivoluzione industriale che, tra fine Settecento ed inizio Ottocento, aveva prevalentemente e beneficamente riguardato i settori tessile e metallurgico, e la precedente rivoluzione agricola che con l’introduzione della rotazione delle colture aveva procurato maggiori raccolti unitamente ad un minor sfruttamento dei terreni, era il Paese ideale per realizzare al meglio un sovvertimento clamoroso che avrebbe decisamente cambiato la società umana. Ciò in ragione anche della sua propria storia di popolo dovuta a due grandi donne che, senza nutrire fatue velleità femministe, avevano saputo garantire il sicuro dominio dei mari (Elisabetta I, 1533 – 1603) che l’aveva resa oltremodo ricca e consentire il rinnovamento economico del Paese che i tempi richiedevano (la regina Vittoria, 1819 – 1901). C’è stata una terza grande donna da non dimenticare nella storia d’Inghilterra, Margaret Thatcher, dal tipico buon senso femminile (There is no such thing as public money, there is only taxpayers money e anche non si capisce come possa funzionare un sistema dove alcuni vivono a danno di altri. Infatti prima o poi si arriva alla situazione in cui gli altri finiscono), capace di tener testa per tre anni ai più potenti sindacati d’Europa, coraggiosa sino a risolversi di far attraversare alla flotta l’Oceano Atlantico per salvaguardare la sovranità inglese, salita a Downing Street nel 1979 con il Paese in picchiata, ridotto allo stremo da inflazione e disoccupazione, decisa a sostenere le indispensabili riforme sì da privilegiare l’economia e la ripresa inglese a scapito di un Welfare State che, per come si era strutturato, era ormai insostenibile. Romano Prodi – l’informazione è tratta dal blog del prof. Antonio Martino – aveva allora pregiudizialmente (e infondatamente) affermato che le riforme avrebbero creato le condizioni per l’esplosione della più drammatica crisi finanziaria del dopoguerra e, più recentemente, ha ribadito la sua avversione al personaggio commentandone sul Sole/24 Ore la morte in termini fortemente critici [Nicola Porro, Il Giornale, 9 aprile 2013] (non è chiaro come sarà possibile che le politiche condotte nel Regno Unito dal 1979 al 1990 abbiano causato il disastro finanziario dell’America del 2007. Mai che gli economisti progressisti riescano a vedere chiaro in economia!). Come in ogni radicale rivolgimento si erano presentate situazioni di disagio sociale e condizioni di vita miserevoli che Charles Dickens non aveva mancato di descrivere nei suoi romanzi dipingendo un’umanità triste, degradata e dispoticamente sfruttata dal padrone delle ferriere, naturalmente egoista e senza cuore, quindi, malvagio al massimo grado. Non si può dire che all’epoca le condizioni di vita fossero ottimali – prima il degrado era condizione di vita normale e nessuno ci faceva più di tanto caso ed ora ci si accorgeva che poteva esserci un meglio – ma è innegabile che, magari a piccoli passi e, però, in continuità, l’economia, iniziando a crescere poco alla volta, poté dare un apprezzabile contributo all’assorbimento delle tensioni sociali che si andavano creando ed al miglioramento della vita umana. Tant’è che il livello di vita dell’Inghilterra, per quanto tormentato potesse essere, grazie alla stabilità delle istituzioni inglesi e ad un ordinamento politico di moderato conservatorismo liberale e di sostanziale tradizionalismo sociale, fu assai migliore di quello degli altri Paesi europei contemporanei ed infinitamente più avanzato di quello del mondo intero. L’uomo, che, appena li supera, dimentica i dolori e le sventure passate, non ricordava le tristi condizioni degli anni e dei secoli precedenti, fra rovinose carestie e catastrofiche epidemie che squassavano il mondo e non risparmiavano nemmeno la perfida Albione (era stato, a suo tempo, Benito Mussolini a riesumare quest’immagine). Dimenticava persino lo stesso precedente passato del Paese che usciva da un periodo di traffici forzatamente rallentati e di insistenti deficienze e carenze alimentari. Gli operai inglesi negli anni ’60 e ’70 del secolo diciannovesimo chiedevano giustamente nuove riforme ma, in buona sostanza, godevano di condizioni di vita ragionevolmente soddisfacenti e, comunque, decisamente migliori rispetto a quelle dei loro padri. Il periodo storico attraversato comportò infatti una prosperità sino a quell’epoca sconosciuta. La middle class fu lo strato sociale che ottenne i maggiori benefici ma la riforma del sistema educativo – con l’estensione dell’obbligatorietà e della gratuità della scuola elementare e l’allargamento dell’educazione superiore anche alle donne – e la promozione di un sistema meritocratico – a cura di Lord William Ewart Gladstone che ebbe il pregio, a rimpiazzare il clientelismo prima abitualmente praticato, di introdurre il principio dell’accesso agli uffici pubblici per concorso e non per raccomandazione o altolocate conoscenze, eliminando lentezze ed incompetenze che per tale via si erano talmente dilatate da essere ormai proverbiali – erano aperte a tutti, a vantaggio, indistintamente e soprattutto, come si può ben intuire, dei più meritevoli. Con il successivo governo di Benjamin Disraeli passò la Legge sulla Sanità pubblica, intesa specificamente a migliorare le condizioni lavorative ed igieniche degli operai. L’obbligo e la gratuità scolastici determinarono all’evidenza almeno un vistoso taglio, se non un vero e proprio arresto, della piaga dell’occupazione minorile, prima, come ovunque, largamente estesa. Questo fenomeno, del lavoro minorile, era stato per lungo tempo frequente anche in tutta Italia, in particolare nel meridione italiano, per quanto la legislazione dopo l’unità avesse stabilito l’illegalità di far lavorare i minori di 12 anni e, oltretutto, sempre la legge avesse disposto che la scuola dovesse comportare per i bambini la frequenza obbligatoria almeno fino alla terza elementare. La benefica normativa era purtroppo spesso disattesa e in Sicilia lo sfruttamento dei minori, i c.d. carusi, era in special modo una calamità corrente nelle miniere di zolfo, le solfare, con il concorso sia dei lavoratori adulti, che, volentieri, pagandoli una miseria, prendevano i ragazzini come assistenti per soggiogarli e tiranneggiarli, sia degli stessi genitori dei carusi cui veniva erogato in via anticipata un prestito e a cui non pareva vero d’avere la disponibilità di qualche soldo – in realtà un pesante laccio al collo ma che, da chi non aveva niente, poteva essere finanche scambiato per una benedizione – che, a fronte di una paga giornaliera di pochi centesimi, causava un asservimento della famiglia protratto per anni, in una situazione di sostanziale schiavitù dei bambini. Un contesto di vero, disumano sfruttamento, con regole e diritti goduti da un’unica parte, che richiederà anni per attenuarsi e cessare definitivamente (come è poi avvenuto, fra il 1967 ed il 1970). Similmente all’esercito, è il soldato, più che non l’ufficiale, a soffrire le dure condizioni della vita militare, così erano prevalentemente le masse operaie a sopportare la lunga e lenta trasformazione delle iniziali difficili condizioni di vita in un benessere di sempre più vasta portata. Non vuole essere un giudizio di merito ma una semplice constatazione: dalla rivoluzione industriale di fine Ottocento in poi l’Europa non ha più conosciuto l’incubo di peste o di carestie, la vita media degli uomini si è sensibile allungata, l’ampia disponibilità di beni e servizi in altre epoche storiche sarebbe stata semplicemente inimmaginabile e, in ogni caso, sarebbe stata preclusa alle classi più povere. Aveva scritto Alexis Carrel, premio Nobel 1912, nel famoso L’uomo, questo sconosciuto (Valentino Bompiani, 1954, Roma) che Gli abitanti della città moderna sono protetti da tutte le intemperie … anche i più modesti abitano appartamenti la cui agiatezza supera assai quella che circondava Luigi XIV o Federico il Grande … non solo in città ma anche in campagna un numero di comodità riservate una volta a pochi privilegiati.
È ammissibile supporre che Karl MarxKarl Heinrich Marx (Treviri, 5 maggio 1818 – Londra, 14 ma... Leggi e Friedrich Engels possano aver colto le difficili condizioni umane e sociali delle masse operaie dell’Ottocento meglio di altri intellettuali loro contemporanei ma è altrettanto innegabile che le loro intuizioni si siano rivelate di corto respiro e, specialmente, che i rimedi ricavati dai loro suggerimenti siano stati più deleteri che provvidenziali per l’umanità malgrado abbiano assunto significativa rilevanza nel panorama politico mondiale e ancor’oggi mantengano un discreto appeal di cui i loro epigoni menano grande vanto. Sono stati lo storicismo – come attività di ricerca storico-culturale – e l’eccessivo dogmatismo dello scientismo – che sfocia nel costruttivismo a porre i presupposti del totalitarismo, un modo di pensare di tipo meccanico (proprio di Cartesio e di Pierre Simon Laplace) e collettivista (fautore, cioè, del collettivismo politico: nazismo, fascismo e comunismo) – ad impregnare ed inquinare la filosofia politica moderna in quanto, in possesso delle cognizioni necessarie e sufficienti a supportare in toto la creatività e l’inventiva umane, all’uomo non dovessero essere preclusi né mete né obiettivi, ed egli potesse conquistare tutto ed aver diritto a tutto, sebbene dimentico di una tradizione di civiltà faticosamente raggiunta e che affonda le sue radici in una saggezza eretta nei millenni. Si è dato spazio al relativismo – dapprima mostratosi timidamente nella sofistica greca e riflesso, nei nostri tempi, nell’empirismo con il suo approccio sperimentale alla conoscenza e nel dubbio metodologico dello scetticismo che l’accompagna, nel criticismo di Immanuel Kant, che valuta e analizza introspettivamente la ragione, e nel pragmatismo per la verifica pratica della conoscenza – che nega l’esistenza di una verità assoluta e cerca di costruirsi una sua propria tradizione. Michel FoucaultPaul-Michel Foucault (Poitiers, 15 ottobre 1926 – Parigi, ... Leggi (La volontà di sapere, Feltrinelli, 1978: Si potrebbe dire che al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte) si è posto controcorrente e ha osservato come la biopolitica, l’ultima raffinatezza del progressismo illuminista che sta all’origine di queste diverse teorie, sia il terreno in cui agiscono le pratiche con le quali il potere intende gestire le discipline del corpo e la regolazione della popolazione, un’area d’incontro tra potere politico e sfera della vita di modo che sia il potere a garantire la vita ed il controllo – addirittura più artificioso che artificiale – delle condizioni della vita umana affinché si giunga ad assegnare allo Stato, entità superiore specificamente individuata allo scopo, il ruolo decisivo nella formazione umana. Un tragico abuso della ragione, come direbbe Friedrich August von HayekFriedrich August von Hayek (Vienna, 8 maggio 1899 – Fribur... Leggi, che sta alla base della successiva convinzione, fatalmente totalitaria, di poter organizzare e condurre per mano la vita degli uomini in totale assenza della libertà. L’illuminismo, fra l’altro, ha sempre coltivato l’idea di una netta superiorità dell’uomo moderno e la preminenza della ragione nei confronti dei tempi antichi e contro le degenerazioni del fanatismo e della superstizione, caratterizzandosi, con l’illuminismo giuridico, la tesi utilitaristica del moralmente buono se ed in quanto indirizzato al conseguimento dell’utile sociale ed una naturale propensione verso il collettivismo socialista rispetto all’individualismo liberale, mitizzando, in altri termini, la presunta egemonia morale del pubblico sul privato e del collettivo sull’individuale. Sembra un paradosso ma Bertrand RussellBertrand Arthur William Russell (Trellech (Monmouthshire, 18... Leggi (Storia della filosofia occidentale, Longanesi & C., Milano, 1967) poteva al riguardo ben additare Hitler come conseguenza di Rousseau. Non mi pare che da tutto questo travaglio intellettuale arrivino alle imprese indicazioni confortanti. Anzi. Le autorizzazioni e la documentazione necessarie in qualsiasi circostanza della vita aziendale, gli obblighi burocratici, le comunicazioni e gli adempimenti che incombono ogni santo giorno, le denunce periodicamente fissate con annessa registrazione di libri e registri e loro conservazione e le ripetizioni per soddisfare le mille esigenze burocratiche o le informative eventualmente domandate dalla Pubblica Amministrazione, le regole della privacy, sono tutte obbedienze dovute che impegnano notevoli risorse, occupano tempo altrove impiegabile certo in maniera più proficua e procurano costi a fondo perduto. Spiega il segretario della CGIA di Mestre, Giuseppe Bortolussi: I tempi e il numero degli adempimenti richiesti dalla burocrazia sono diventati una patologia endemica che caratterizza negativamente il nostro Paese. Non è un caso che gli investitori stranieri non vengano ad investire in Italia anche per la farraginosità del nostro sistema burocratico. Una legislazione spesso indecifrabile, l’incomunicabilità esistente tra gli uffici delle varie amministrazioni, la mancanza di trasparenza, l’incertezza dei tempi e un numero spropositato di adempimenti richiesti hanno generato un velo di sfiducia tra imprese private e Pubblica amministrazione che, nonostante gli sforzi fatti dal legislatore, non sarà facile rimuovere. La pressione fiscale di confisca che in Italia sequestra fino al 68% dei ricavi (fonte: sempre l’attivissima CGIA di Mestre), completa un quadro desolante e deprimente.
© Carlo Callioni 2014