L’Unione europea
Con la firma del trattato che istituisce la Comunità economica europea a Roma, in Campidoglio, nella sala degli Orazi e Curiazi del Palazzo dei Conservatori, il 25 marzo1957 – lo stesso luogo dove, il 29 ottobre 2004, i rappresentanti dei 25 Paesi membri dell’Unione europea, facendo un passo avanti, avrebbero sottoscritto la costituzione dell’Unione europea, una struttura sovranazionale che riunisce 28 paesi membri indipendenti del continente europeo – è partita la costruzione dell’Europa con 6 associati: Italia, Germania occidentale, Francia, Belgio, Olanda e Lussemburgo. In questo modo l’Italia è entrata in Europa come socio fondatore ed è parte di un organismo molto particolare. Non si può dire sia un’organizzazione intergovernativa, tipo le Nazioni Unite. Non è neanche una federazione di Stati, com’è il caso degli Stati Uniti. Non è nemmeno un vero e proprio Stato malgrado gli Stati partecipanti abbiano nel tempo delegato all’Unione fette sempre più consistenti della propria sovranità nazionale. È comunemente ritenuto che l’Unione europea abbia salvaguardato la pace nell’intero Continente per quasi 60 anni. Il che, peraltro, è, secondo me, almeno discutibile. Personalmente, ritengo che non essendo nemmeno riuscita a darsi un esercito comune e, come sostiene Carlo Jean, esperto di strategia militare e di geopolitica, presidente del Centro studi di geopolitica economica e docente di Studi strategici alla LUISS Guido Carli, non avendo prospettive di PESC (politica estera e di sicurezza comune) e PESD (politica europea di sicurezza e di difesa) autonome dagli Stati Uniti perché per divenire un’autentica potenza – con PESC e PESD di rilievo – dovrebbe rimettersi a fare figli e a privilegiare la crescita economica, cioè a investire, il merito del lungo periodo senza guerre debba preferibilmente attribuirsi alle influenze militari all’epoca esistenti (USA e URSS) che contrapponendosi si elidevano e che, usando magari la deterrenza nucleare, hanno denominato la pace mondiale. Può definirsi, forse, una zona di mercato libero che forma un’unione economica. Ciò, malgrado il fatto che ciascun Paese abbia orientamenti e regole di politica economica del tutto differenti, salvo la moneta unica, l’euro. Qui sta il problema: nell’euro. Non dimentichiamoci di alcuni eventi significativi: in Danimarca il 28 settembre 2000 i cittadini votano, a grande maggioranza, No all’euro. Nel giugno 2001 l’Irlanda boccia il trattato di Nizza (Non votare ciò che non conosci). Nel marzo 2001 in Svizzera in una consultazione popolare basata sulla domanda: aderiamo all’UE? ha vinto il Fronte del No. In altri termini, dove il popolo ha potuto esprimere il proprio pensiero, l’euro non ha riscosso grandi ovazioni.
Il rigore dell’Europa
Si osservino le mosse dell’Unione Europea e ci si interroghi sui più recenti sviluppi dell’austerità promossa in Europa per tutelare l’euro. Parrebbe l’UE non avere tra i suoi obiettivi crescita e sviluppo ma esclusivamente un inflessibile rispetto dei parametri di patrimonio. Si scorrano, giusto per verificare l’asserzione, i provvedimenti specifici adottati sul tema. Nel preambolo del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’unione economica e monetaria (o Fiscal Compact, 2 marzo 2012), il principio: desiderosi di favorire le condizioni per una maggiore crescita economica nell’Unione europea si direbbe orientato a caldeggiare in tutti i sensi, economico e patrimoniale, il buon andamento della gestione degli Stati membri dell’Unione. Sul piano delle cose concrete, tuttavia, il presupposto si traduce, di fatto, nella sola preoccupazione di salvaguardare lo svolgimento della gestione in termini patrimoniali. Così, si è consapevoli della necessità di garantire che il disavanzo pubblico non superi il 3% del prodotto interno lordo e che il debito pubblico non superi il 60% del prodotto interno lordo. Espressamente, nel prosieguo del preambolo si precisa: accogliendo favorevolmente le proposte … relative al rafforzamento della sorveglianza economica e di bilancio degli stati membri che si trovano o rischiano di trovarsi in gravi difficoltà per quanto riguarda la loro stabilità finanziaria … per la correzione dei (loro, n.d.r.) disavanzi eccessivi … e rilevando l’intenzione della Commissione europea di presentare ulteriori proposte legislative per la zona euro riguardanti, in particolare, la comunicazione ex ante dei piani di emissione del debito, programmi di partenariato economico che illustrino nel dettaglio le riforme strutturali degli Stati membri soggetti a procedura per i disavanzi eccessivi e il coordinamento delle grandi riforme di politica economica previste dagli Stati membri e, ancora: rammentando che è necessario … sollecitare e, all’occorrenza, costringere uno Stato membro a ridurre l’eventuale disavanzo e altresì: obbligo ove il debito pubblico supera il valore di riferimento del 60% di ridurlo a un ritmo medio di un ventesimo all’anno. Il Fiscal Compact si prefigge di rendere il pareggio di bilancio uno stato permanente di operatività, anche ricorrendo, al fine di rendere la prescrizione più cogente, a norme costituzionali (in Italia, molto solerte, nell’aprile del 2012 si è infatti provveduto ad inserire tale principio in Costituzione con modifica dell’art. 81), di mantenere i rapporti deficit/PIL e debito/PIL (cfr.: art. 4) rispettivamente nei limiti del 3% e del 60% con una riduzione dell’eventuale eccedenza di questo rapporto a un ritmo medio annuale di 1/20 (cfr.: art. 4) con procedura di correzione del disavanzo eccessivo (cfr.: art. 5). Armonizzato al Fiscal Compact, che opera in parallelo, il Six-pack, entrato in funzione il 13 dicembre 2011 e composto da 5 Regolamenti ed 1 Direttiva, promuove la convergenza del sistema verso un Obiettivo di Medio Termine e il varo di rimedi preventivi e consuntivi applicabili per il mancato rispetto dei vincoli (come detto, 3% del deficit e 60% del debito) con l’attivazione di una Procedura per Deficit Eccessivo e l’imposizione di sanzioni progressive che possono arrivare allo 0,5% del gross domestic product. In altri termini, la Commissione europea si arroga il diritto di giudicare i bilanci dei 17 Paesi della zona euro mediante una valutazione ex ante per l’anno corrente e quelli successivi e un apprezzamento ex post per l’anno precedente, basati sul Programma di Stabilità di ciascuno Stato membro, e di dichiararne eventualmente la bocciatura (sinora aveva il diritto di esprimere unicamente delle raccomandazioni). Il Two-pack, entrato in funzione poco prima, il 23 novembre 2011, e composto da 2 Regolamenti, è insieme un programma e un calendario: la Commissione europea (giugno-luglio) trasmette agli Stati osservazioni e suggerimenti di indirizzo perché gli Stati, entro il 15 ottobre, le consegnino la propria bozza di budget, con le necessarie analisi di dettaglio, per l’anno a venire. Di fatto e dopo almeno un biennio di ricette ultra-rigoriste, l’eurozona e l’intera Unione europea scoprono di avere il debito più alto di sempre. Nell’UE la Germania può rivendicare di aver tagliato il debito al 78,4%. Tuttavia, è ancora fuori rispetto al 60% del PIL delle regole di Maastricht. Sotto la direzione di François Hollande, la Francia continua a non rispettare il vincolo del 3% deficit/PIL (3,8% nel 2013).
La situazione in Italia: crescita, sviluppo e Fiscal Compact
La Commissione, se il budget non soddisfa i requisiti richiesti, può richiedere una revisione della bozza ed imporre suoi cambiamenti, anche sostanziali, allo scopo di assicurare una tempestiva correzione del Deficit Eccessivo. L’accertamento deve concludersi entro il 31 dicembre dell’anno anteriore a quello oggetto di previsione. La correzione viene chiusa, invece, quando il deficit eccessivo viene rettificato in modo certo. Lo Stato che non volesse o non potesse adeguarsi alle raccomandazioni sarebbe suscettibile di essere sanzionato. Se mancasse di capacità amministrativa (administrative capacities) occorrerebbe si avvalesse (come è capitato con la Task Force per la Grecia) dell’assistenza tecnica della Commissione. È giusto riconoscere ed ammettere che in un’unione monetaria i segnali di mercato derivanti dall’orientamento del tasso di cambio e dai tassi di interesse sui titoli del debito pubblico risultino poco visibili e che, di conseguenza, ben potrebbero, da un lato, i coordinatori nazionali delle politiche di bilancio abbandonarsi alla creazione di deficit insostenibili per il loro Paese e, d’altro canto, le politiche nazionali riflettere dinamiche non conciliabili con la condivisione della moneta unica atteso che, in tal caso, gli interessi anche di breve periodo di ciascun Paese potrebbero largamente divergere dall’interesse comune dell’unione monetaria. Non vi è dubbio, fra l’altro, che la crisi finanziaria e la recessione dell’economia globale del periodo attuale abbiano deteriorato non poco le finanze pubbliche in tutti i paesi europei e rappresentino una seria giustificazione per l’attivazione di modifiche adeguate della governance europea dato che una politica di bilancio che si discosti dai principi di austerità predicati in Europa può rendere vacillante l’economia di un determinato Paese ed influire negativamente sulle sue prospettive di crescita economica suscitando nel contempo, se non certe, almeno assai probabili ripercussioni in termini di inflazione non soltanto del Paese ma altresì dell’intera Unione.
Per l’Italia aderire ai criteri fissati sarà una tragedia se non si riuscirà a far crescere il PIL che è una vera conditio sine qua non. Assumendo dal lato del debito per il 2013 il valore del debito in 2.067,5 miliardi di euro e il PIL in 1.559,2 miliardi di euro, il rapporto debito/PIL è pari al 132,60%. In realtà, i valori attuali reali sono diversi perché il debito, a febbraio 2014, è già salito a 2.107,2 miliardi di euro (secondo la valutazione dell’Ocse il rapporto debito/PIL sarà del 134,3% nel 2014, scenderà al 132,6% nel 2015, nel 2016 toccherà il massimo del 134,5% ed inizierà a scendere esclusivamente oltre il 2016). Per quanto riguarda invece il PIL, tenendo presente il pronostico formulato dall’ISTAT di un aumento nel 2014 di circa lo 0,75 per cento (ma le previsioni Ocse lo stimano pari allo 0,5%), esso potrebbe da 1.559.200 salire al tetto di 1.676 milioni di euro per un rapporto che si ridurrebbe al 125,72%. L’ISTAT ha però dato una più recente nuova notizia della stima preliminare del PIL che nel primo trimestre 2014 si colloca a – 0,1% sul trimestre precedente e – 0,5% su riferimento all’anno. Il 5 maggio 2014 l’Istituto ha poi presentato il Rapporto semestrale sulle prospettive economiche per il 2014 – 2015: nel 2014 si prevede un aumento del PIL pari allo 0,6%, per il 2015 dell’1% e per il 2016 dell’1,4%. Quasi inevitabilmente le aspettative di crescita per l’anno in corso, fissate dal governo allo 0,8%, non potranno essere realizzate, a meno di miracoli, ed esse sono destinate, quindi, ad essere riviste al ribasso. Il Tesoro – secondo Il Sole/24 Ore – continuerebbe a nutrire fiducia nel rilancio dei consumi quale frutto conseguente al taglio dell’Irpef. Sembrerebbe una fiducia, tutto sommato, un po’ azzardata tenendo conto delle conclusioni riportate dal ministero dell’Economia nel Documento di economia e finanza in base alle quali l’effetto cumulato sul PIL dell’anzidetta manovra non oltrepasserebbe lo 0,1%, senza contare l’influsso negativo di un probabile aumento generalizzato delle imposte per finanziare il bonus di 80 euro destinato ad alcuni lavoratori dipendenti. Rimane, perciò, rilevante pregiudizio la scarsa competitività del sistema economico italiano. Perché il rapporto debito/PIL scenda al 60% occorre che, a parità di PIL, vi sia un minor debito di 1.131.980 milioni di euro [dato 2013] (60 x 1.559,2/100 = 935.520 milioni di euro) per un taglio annuo di 56.599 milioni di euro e, a fine 2014, vi sia un minor debito di 1.102.000 milioni di euro (60 x 1.676/100 = 1.006.000 milioni di euro) per un taglio annuo di 55.000 milioni di euro. Ogni anno. Per 20 anni. Il prof. Ugo Arrigo (Il Fatto Quotidiano, 20 maggio 2014) introduce un’intelligente e diversa prospettiva che prende in esame, nel rapporto, anziché il numeratore (debito), il denominatore (PIL). Premesso che il PIL è il prodotto del prezzo per la quantità e che il deflatore del PIL risulta dal rapporto tra PIL nominale, quantità valutate a prezzi correnti (debito pubblico effettivo lordo), e il PIL reale, valore ottenuto per quantità calcolate a prezzi costanti (debito pubblico netto), egli osserva che il debito pubblico netto appare molto più realistico e, fortunatamente, molto più basso. Il combinato operare del PIL e del suo deflatore potrebbe intanto rendere meno drammatica la situazione e potrebbe risultare il percorso giusto per risolvere il problema. A patto che il nostro Paese si dedichi finalmente a promuovere stabilmente la crescita. Certo, non a – 0,1%. Ma nemmeno a + 0,5% o 0,6%. Troppo risibile.
Un politico (Giuliano Amato, n.d.r.) … all’epoca aveva la fama di essere l’esponente più liberista di tutto il centrosinistra … sapeva bene come senza riforme strutturali e radicali l’Italia non avesse alcuna chance di crescere, o anche solo di sopravvivere, una volta entrata nell’euro … non abbiamo davvero capito cosa significava entrare nell’euro … La spesa di Craxi e Andreotti utilizzata per attirare voti ha gonfiato il debito, ed è stata una spesa a cui ha assistito in modo del tutto consapevole anche Giuliano Amato, che gli piaccia ricordarlo o no (Alan Friedman, Ammazziamo il gattopardo, prima edizione febbraio 2014 R.C.S. Libri s.p.a.). Riforme di struttura e crescita. Questione nota sin dal 1985, ma anche da prima, dal momento in cui l’Italia, esaurita la spinta propulsiva del miracolo economico, si è affidata alle cure del centrosinistra. Nel 1985, sulle pagine del Financial Times … Criticai il fatto che dopo due anni in carica – aggiunge Alan Friedman – il governo guidato da Bettino Craxi e Giuliano Amato non ha mostrato nessuna inclinazione ad affrontare il più serio problema dell’economia italiana, cioè la spesa fuori controllo.
Del Fondo Europeo di Redenzione (European Redemption Fund)
Non è finita. Dall’autunno 2013 in sede europea sono cominciate a circolare insistenti voci sui Contractual Arrangements, ossia sui contratti bilaterali, caldeggiati da Angela Merkel (se un Paese vuole ricevere aiuti europei deve aderire all’accordo). Il guaio è che nell’accordo chi vuole aiuti, vigenti i Contractual Arrangements, si consegna, mani e piedi legati, alla volontà dell’Europa che potrà decidere in automatico quali e quante riforme sarà necessario applicare. Come se non bastasse, è in dirittura d’arrivo il Fondo Europeo di Redenzione o European Redemption Fund, sempre ispirato da Angela Merkel ed elaborato dal Consiglio degli esperti economici della Cancelleria tedesca. Gli Stati europei, in prima battuta, avranno il diritto di conferire in un fondo unico europeo la quota del debito nazionale eccedente il 60% del PIL (apparentemente) liberandosene. In seconda battuta, il fondo trasformerà i titoli nazionali in titoli europei emettendo corrispondenti obbligazioni così da consentire di ripagare il debito nel limite dei 20 – 25 anni di vita delle obbligazioni emesse. Per compiere il primo passo, però, i Paesi aderenti all’iniziativa sarebbero forzati a fornire adeguate garanzie e ad offrire in pegno i beni costituenti il proprio patrimonio nazionale: i beni immobili di pregio, le riserve auree possedute, le partecipazioni societarie eventualmente in titolarità dello Stato. Se il patrimonio non bastasse a dare sostanza ad una garanzia sufficiente, si farebbe ricorso persino ad una specie di ipoteca sugli incassi fiscali del futuro e la loro esazione sarebbe effettuata direttamente dal fondo, probabilmente ancora più costrittivo di Equitalia. C’è da dire che, con la progettata governance europea, la cessione di quote di sovranità sarebbe totale, legati i Paesi, con una corda al collo, alla superiore volontà di entità burocratiche assolutamente svincolate da ogni principio di democrazia. Nominati in una ristretta cerchia. Mai eletti attraverso votazioni democratiche. Come in Italia, con il metodo Napolitano.
La situazione, così congegnata, introduce nel processo di costruzione europea, a parte ogni altra profonda considerazione, un’immagine vagamente moraleggiante, come se lo sforamento del debito fosse sempre e indubitabilmente imputabile ad un comportamento colpevole e meritevole di solenne castigo. Che siano i soloni di Bruxelles a pronunciarlo è doppiamente ingiustificabile. Perché la libertà di un Paese viene coartata da semplici funzionari – burocrati e sarebbe grave attribuir loro una qualsiasi legittimazione a tal fine. Perché una totale espropriazione di un Paese non può in nessuna circostanza essere una ragionevole misura a fronte di un debito, ancorché eccessivo e, magari, persino irresponsabilmente creato (ma potrebbe ugualmente essere stato causato da una straordinaria calamità naturale, di immani proporzioni). D’altra parte, il convincimento degli uomini di governo dell’UE non concede incertezze interpretative. Redenzione è termine che non è scelto a caso ma viene, inequivocabilmente, mutuato dal concetto religioso di perdono o di assoluzione, per peccati o sconvenienze commessi, e che apre una via di salvezza dalla dannazione o dalla disgrazia. Se fosse frutto dello spirito fondamentalista che caratterizza coloro che si immaginano vocati all’intransigente fedeltà delle proprie messianiche sicurezze, dovrebbe essere materia di studio della soteriologia. Chi ha volutamente scelto la parola Redenzione è, bene che gli vada, un fanatico. Se non lo fosse, sarebbe per lo meno un perseguitato dalla sfortuna. Sarebbe, cioè, vittima di una gaffe colossale perché poco mancava pronunciasse: Ego te absolvo a peccatis tuis. In ogni caso, al di là del curioso apparentamento fra politica economica e religione, il provvedimento sembra inventato da chi si muove con la stessa delicatezza e la medesima tecnica dello strozzino: primo: selezionare la vittima predestinata sapendola oberata dai debiti; secondo: offrire il proprio aiuto per il salvataggio; terzo: prendere, dal suo patrimonio, ciò che ha valore, dapprima in garanzia e successivamente a compensazione degli eventuali mancati rimborsi. Dovesse riguardare l’Italia – che ha almeno il doppio dell’indice di debito consentito (130% in luogo dell’ideale 60%) – essa dovrebbe garantire all’incirca più di 1.000 miliardi di euro correndo l’alea di pregiudicare l’intera ricchezza del Paese. Che succederebbe, poi, qualora i tempi e i modi imposti per il rimborso non fossero scrupolosamente rispettati e fosse escussa la garanzia? L’Italia rimarrebbe associata all’Europa o verrebbe, per manifesta indegnità, espulsa? Non è mai esistito un Paese il cui debito pubblico sia assistito da garanzie reali. Esso è semplicemente garantito dalla presenza della propria banca centrale. Si possono citare al riguardo le vicende del Fondo Monetario Internazionale, in origine un sistema di regole e procedure per controllare la politica monetaria internazionale e far cessare il caos monetario del periodo tra le due guerre mondiali, che aveva il compito di raddrizzare gli squilibri causati dai pagamenti internazionali e che, tramontato il regime dei cambi fissi, è riuscito a sopravvivere a sé stesso, come frequentemente capita agli enti inutili, abbandonando i suoi fini istituzionali costitutivi per dedicarsi ad una diversa funzione, più prettamente bancaria. Dal 1971 ad oggi, in effetti, il Fondo Monetario Internazionale, oltre a mettere a disposizione degli Stati membri le risorse bastanti ad affrontare le difficoltà della bilancia dei pagamenti, si è occupato della ristrutturazione del debito estero specie nei Paesi del c.d. Terzo Mondo, ha erogato prestiti ed imposto dei piani di aggiustamento strutturale quale condizione irrinunciabile per effettuare i relativi esborsi, clausola che ha formato oggetto di una (infondata) critica fra le più agguerrite rivolte a questa organizzazione. È notorio, infatti, che le nazioni più povere abbiano ricevuto crediti tre o quattro volte maggiori di quanto non abbiano mai restituito ai paesi occidentali prestatori e la richiesta di un piano ragionevole non può suonare, come obiettato, prevaricazione. Né in linea teorica, né il linea pratica. Mai e poi mai il Fondo Monetario Internazionale si è proposto comunque l’idea di conseguire ed accaparrarsi garanzie reali come ora pretende il Fondo europeo né mai ha ritenuto fosse il caso di bastonare gli Stati aderenti che fossero apparsi fuori norma. Che in qualche caso, come per diversi dittatori e satrapi africani, sarebbe stato forse opportuno fare per impedir loro di dissipare i soldi ricevuti per proprio personale godimento e non per sollevare le tristi condizioni del loro popolo. Fra l’altro, mentre i Paesi aderenti (dai primi 29 alla creazione del Fondo sino ai 188 Stati membri attuali) non hanno fra loro alcuna forma di alleanza politica (ci sono, ad esempio, gli Stati Uniti e il Giappone insieme a Cina e Russia), l’Europa pretenderebbe di essere addirittura una vera e propria Unione.
Ciliegina sulla torta: In caso di mancata restituzione (del deposito fruttifero pari allo 0,2 per cento del PIL da convertirsi in ammenda in caso di non osservanza della raccomandazione di correggere il disavanzo eccessivo, n.d.r.), le entrate derivanti da queste ammende (o dagli interessi maturati sul deposito fruttifero) verrebbero distribuite, sulla base dei rispettivi PIL, tra i paesi membri dell’area euro non sottoposti ad alcuna procedura (fonte: dossier XVII legislatura La governance economica europea giugno 2013 n. 3, 5. Le sanzioni). Ovverosia: della spartizione del malloppo.
Prima lo Stato, poi la moneta
Torna in evidenza il fatto che l’Europa vorrebbe, con la moneta unica, apparire uno Stato unitario. Ma non lo è. Se l’Europa fosse uno Stato singolo varrebbe Un quarto dovere dello stato, non menzionato esplicitamente da Adam Smith, consiste nel proteggere i membri della comunità che non possono essere considerati individui responsabili … questo è suscettibile di grandi abusi, ma non può essere evitato (Milton Friedman e Rose D. Friedman: Liberi di Scegliere, traduzione italiana di Giuseppe Barile, Longanesi & C., 1981; titolo originale: Free to choose, published by arrangements with Harcourt Brace Jovanovich, Inc.). Non ci sarebbe bisogno di Fiscal compact, di raccomandazioni, di confessioni, di Redenzione e di sanzioni perché l’economia sarebbe unica. È normale – ed universalmente accettato – che lo Stato stabilisca provvidenze ordinarie per i più deboli. Nessuno si oppone né penserebbe di opporsi. L’Europa odierna sembra, al contrario, una gara di atletica leggera. Nella disputa dei 100 metri piani il campione non aspetta, né gli verrebbe mai in mente di aiutare, l’atleta non qualificato che arriverà ultimo. Perché, fuor di metafora, nell’Unione Europea, la Germania, che è il campione, dovrebbe allora soccorrere e sostenere la Grecia? A dire il vero, proprio la Germania, ormai parecchi anni fa, aveva realizzato un programma di soccorso formidabile, aveva proceduto alla riunificazione dei due tronconi, est e ovest, in cui era stato forzosamente diviso il Paese. Quelli dell’ovest si erano fatti carico, con relativo non indifferente aumento di tasse, delle spese gigantesche indotte dalla riunificazione. Ci sono precise ragioni etniche e storiche a giustificare, nella circostanza, l’aiuto del primo in soccorso all’ultimo. Fino al 1949, anno della separazione, non esistevano consistenti difformità per qualità di vita delle persone che abitavano in tutta la Germania – a parte le inderogabili differenze dialettali da regione a regione, le imprescindibili diversità indotte dal clima, le inevitabili divergenze per modi, tendenze e gradimenti sociali, non esclusi i gusti culinari o una evoluzione storica che è peculiarità di ogni specifica regione – perché ovunque la gente era, prima di tutto, orgogliosamente tedesca. Il che non impedisce, ancora oggi, a Germania unita dopo la riunificazione, che i tedeschi sembrino ancora divisi fra Ossis, dell’est, e Wessis, dell’ovest, a causa di preconcetti, prevenzioni e magari anche fisime il cui fondamento va ricercato nei quarant’anni di divisione della Germania. Come si è potuto pensare che l’Europa, divisa addirittura nei millenni, potesse superare contese, dissapori, dissidi, egoismi e gelosie senza un lungo preliminare periodo di adattamento?
L’euro si sta incamminando, dunque, per una brutta china. Persino dal punto di vista tecnico. È un sistema di cambi fissi basato sull’ancoraggio con il nulla perché è una moneta che dietro di sé non ha né uno Stato né una banca centrale (alla B.C.E. è impedita la possibilità di interventi diretti in aiuto degli Stati, il suo scopo essendo unicamente quello di mantenere sotto controllo l’andamento dei prezzi per assicurare il potere d’acquisto nell’area dell’euro e tenere sotto vigilanza l’andamento dell’inflazione), ovverosia quelle istituzioni che da sempre si sono rese garanti del sistema monetario. Da questo punto di vista a nessuno può sfuggire come la storia abbia già condannato all’insuccesso sia il gold standard – accordo di cambi fissi basato su di una convertibilità, totale o parziale, della moneta in oro – dopo lo scoppio della prima guerra mondiale (1914) che il gold exchange standard – un diverso accordo di cambi fissi basato su un ancoraggio al dollaro – sistema creato dalle intese uscite dalla conferenza di Bretton Woods (1944), riunita in prossimità della conclusione del secondo conflitto mondiale per ricostruire un sistema monetario e finanziario scosso dalla guerra e fare tesoro delle traumatiche esperienze negative sofferte durante la grande depressione del ‘29. L’accordo di Bretton Woods è durato a lungo ed è entrato in crisi con la sospensione della libera convertibilità del dollaro in oro voluta da Richard Nixon nel 1971 ed imposta, quale retaggio della guerra del Vietnam, dal conseguente forte aumento della spesa pubblica americana. Il derivato crescente indebitamento USA faceva aumentare l’inflazione interna, che la leadership della moneta a stelle e strisce riportava gratuitamente sugli incolpevoli Paesi esteri, e le richieste di conversione rischiavano di far esaurire le riserve in oro del Tesoro americano. Il sistema è definitivamente tramontato con la successiva svalutazione del dollaro per venire quindi sostituito dalla fluttuazione dei cambi e dal più naturale sistema di cambi flessibili. I regimi di cambi fissi sono decisamente più virtuosi ma, forse proprio a causa di ciò, sono stati avversati da molti. Peraltro, si pongono a vantaggio degli Stati dominanti e determinano una progressiva perdita di sovranità monetaria. In pratica, il sistema dei cambi fissi blocca le decisioni di politica economica dei Paesi che vi partecipano e gli Stati delegano i poteri di controllo finanziario dell’economia e della spesa pubblica al governo dello Stato dominante. Illuminante è il parere di Jesus Huerta de Soto con riferimento all’euro: i differenti stati membri dell’unione monetaria rilasciarono completamente e persero la loro autonomia monetaria … l’euro iniziò ad agire e continua ad agire come il gold standard ai suoi tempi … Con l’euro, nonostante tutti gli errori, le debolezza e le concessioni … questo tipo di comportamento irresponsabile e di fuga dalla realtà non è più possibile (Jesus Huerta de Soto, In difesa dell’Euro: un approccio austriaco, IBL Occasional Paper n. 88, 2012, p. 5) in Alberto Mingardi, L’intelligenza del denaro. Perché il mercato ha ragione anche quando ha torto, 2013 by Marsilio Editori in Venezia, Prima edizione gennaio 2013).

Sia pure per un diverso aspetto, va considerata inoltre la critica dell’allora governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, il quale, con lungimiranza, nelle Considerazioni finali per il 1971, dichiarava: Il perseguimento dell’Unione monetaria con forte anticipo sull’integrazione delle economie può danneggiare alcune di esse e non consente una distribuzione tra i Paesi membri dei vantaggi e degli svantaggi connessi con il processo di unificazione. Nella prefazione all’edizione italiana (Friedrich A. von Hayek Studi di filosofia, politica ed economia, 1998, Rubettino Editore, Soveria Mannelli; titolo originale: Studies in Philosophy, Politics, Economics and the History of Ideas, Routledge & Kegan Paul, London, 1967) Lorenzo Infantino ribadisce l’osservazione ed annota: Molte istituzioni sociali sono nate in tal modo, per via irriflessa; per esempio: il linguaggio, la famiglia, il diritto, la città, lo Stato, il mercato, la moneta, e così via … Le istituzioni create intenzionalmente possono fallire le loro finalità, ma quelle nate inintenzionalmente resistono proprio perché rispondono a esigenze della convivenza, anche se tali esigenze sono a noi sconosciute o non sono da noi ben comprese. Dario Antiseri (Il Sole 24 Ore, 17.5.1998) ricorda: L’irragionevole età della Ragione, è così che HayekFriedrich August von Hayek (Vienna, 8 maggio 1899 – Fribur... Leggi chiama l’Illuminismo. E’ un frutto del razionalismo illuministico è esattamente il costruttivismo, una teoria della società poi fatta propria anche dal positivismo e che ha avvelenato l’intero socialismo. Il costruttivismo sostiene che tutte le istituzioni sociali e tutti gli eventi storici sono esiti di piani intenzionali, risultati di progetti elaborati, voluti e realizzati: così sarebbe per istituzioni fondamentali come il linguaggio, la moneta, lo Stato, il mercato o per eventi come un trattato di pace, o per istituti come un corpo di polizia o una scuola. Ammonisce Mario Giordano (Non vale una lira, 2014 Arnoldo Mondadori Editore s.p.a., Milano, prima edizione febbraio 2014): Prima è nata la Confederazione svizzera, poi è nato il franco svizzero. Poi, precisa: negli Stati Uniti, federazione e moneta possono nascere nello stesso momento perché nel Paese era comunemente parlata la stessa lingua e si possedeva la stessa cultura … quello che conta, per unire gli Stati, è il progetto umano e politico, non la sua valuta: quest’ultima deve venire dopo. In Europa si sono voluti dimenticare elementari principi di buon senso. Margaret Thatcher profetizzava: L’euro è la più grande follia dell’era moderna, farà finire la democrazia in Europa. E l’economista liberale Antonio Martino scriveva: È un salto nel buio, temerario se non irresponsabile.
L’euro è il prezzo che tutti gli europei devono pagare per questa incoerente impazienza. Quando la fretta in Europa coincide con il rallentamento dello sviluppo e la crisi del debito, esattamente come negli U.S.A. l’esplosione della bolla immobiliare si era involuta in crisi bancaria, a soffrirne d’acchito è la moneta europea anche perché il processo di integrazione europea, che sarebbe dovuto venire prima, ancora stenta a vedere la luce.
Gli indici europei
Perché l’euro non venga ostracizzato dalla storia, come già è avvenuto per il gold standard e il gold exchange standard di cui si è detto prima, a me pare che il sistema finanziario e gli accordi politici in cui esso si incorpora debbano venir sostanzialmente modificati.
Allo stato attuale, tanto lo stare quanto l’uscire dall’euro per l’Italia sarebbe indiscutibilmente uno scellerato misfatto. Le ragioni volta a volta espresse da chi vuole restare e da chi vuole andarsene sono fumose o frivole, confondono le idee e non aiutano a capire, sono circonfuse da assoluta ignoranza. Non solo economica. Personalmente ritengo entrambe le tesi ugualmente irragionevoli. Non mi è, infatti, mai capitato di ascoltare qualcosa di veramente giudizioso che abbia potuto farmi mutare avviso. Il rapporto tra deficit pubblico e PIL non superiore al 3% e un rapporto fra debito pubblico e PIL non superiore al 60% riflettono un’idea delle proporzioni che devono caratterizzare un bilancio. Si potrà eventualmente e concettualmente discutere circa il valore più confacente loro attribuibile purché la trattazione del tema sia condotta con un profilo strettamente tecnico che bandisca proclami politici di principio o di interesse. Cosa che, vale ripetere, mi sembra nessuno abbia mai proposto. Non sono, tuttavia, sbagliati. Non è, a mio avviso, lecito disconoscere la validità del principio, indipendentemente dal fatto che lo chieda l’Europa, soluzione assiomatica e sempre troppo sbrigativa, usata per tacitare, senza essere costretti ad argomentare, un’eventuale dissonanza di opinioni. La limitazione ed il controllo del debito pubblico rispondono a corretti criteri di conduzione della persona, della famiglia, dello Stato. Lo stesso discorso va ripetuto per il contenimento e la vigilanza del deficit. Perché, allora, si ripete continuamente che gli indici europei sono scorretti, obsoleti, superati, ormai anacronistici? La crisi economica attuale, nata a metà anni ’90 negli Stati Uniti, per effetto di una deregolamentazione selvaggia, ha attecchito in Europa, dove non c’è mai stata una reale deregolamentazione, dove sono proprio i debiti pubblici dei diversi Stati ad aver innescato una crisi ancora peggiore e a falcidiare il reddito dei cittadini. Lo strano, semmai, è che, ingaggiate da un obiettivo comune di rigore in Europa, a casa propria le classi politiche non siano riuscite a smettere di usare la spesa per costruire consenso e a garantire il rispetto dei rapporti deficit/PIL e debito/PIL né abbiano mai fornito una plausibile spiegazione del traguardo mancato o, in subordine, del perché essi non siano significativi. Il punto focale della questione sta nel proporzionare le spese alla crescita. Basta parole al vento. Basta proclami di spending review se poi non se ne fa niente. Basta annunci di provvedere al rimborso dei debiti verso le imprese se poi all’avviso non seguono fatti concludenti. Fra l’altro, la necessità di pagare i propri debiti è elementare regola di civile comportamento. Solo in Italia ha bisogno di specifiche disposizioni regolamentari. Se non si abbandoneranno insieme ogni pretesa di indiscriminata fedeltà agli ideali socialisti ed alle fantasticherie indotte da un Welfare State senza limiti non ci sarà rimedio. Se l’Europa e l’Italia, o più in generale, il mondo occidentale, non smetteranno di fare spese pazze e non cominceranno a raddrizzare, finalmente, i propri conti il nostro mondo, non avrà alcuna speranza di risollevarsi. Il comunismo, come ideale, è fallito ovunque. Ma il suo obiettivo, di rendere tutti uguali nella povertà, sarebbe purtroppo malauguratamente raggiunto.
© Carlo Callioni 2014