Il keynesismo, spreco statale e spesa in deficit
L’impotenza degli organi di governo di fronte alle crisi economiche, i tentativi incerti e confusi, persino da parte degli uomini politici più eccellenti, in materia di politica monetaria, commerciale, industriale e agricola, non sono che i sintomi fin troppo eloquenti della penosa condizione in cui versa l’economia politica pratica. Carl MengerCarl Menger (Neu Sandez, 28 febbraio 1840 – Vienna, 26 feb... Leggi, Lineamenti di una classificazione delle scienze economiche (Rubettino Editore, Soveria Mannelli, 1998)
La Grande Depressione del 1929 e l’ordine di Westfalia: signori, si cambia. John Maynard KeynesJohn Maynard Keynes, primo barone Keynes di Tilton (Cambridg... Leggi e la teoria del moltiplicatore. La politica per la politica è un vero disvalore.
È utile per prima cosa rifarsi alla Grande Depressione del 1929. Prima del 1929 il primato della sterlina inglese e la libera convertibilità delle monete in oro, vigente cioè il regime del gold standard che aveva finito per sostituire il sistema aureo puro e il sistema bimetallico (oro e argento), certificavano il mantenimento di un ragionevole grado di stabilità di rapporti fra le banche centrali dei diversi Paesi, erano sufficiente garanzia di un duraturo e costante livello generale dei prezzi sui mercati, rendevano sicure le condizioni di negoziazione del credito, permettevano un fluire discreto, se non magari buono, della vita economica. Equiparabile per certi versi all’ordine di Westfalia, di quel sistema di relazioni internazionali imperniato sulla centralità dello Stato-nazione e fondato su soluzioni politiche negoziate e pacifiche che dalla fine della Guerra dei 30 anni del 1648 aveva retto, sul piano civile e politico, la pace e l’equilibrio in Europa. Ininterrottamente, fino alla guerra del 1915-18. Questa avrebbe sconvolto ogni pregressa convivenza così come le pesanti riparazioni imposte alla Germania, oltre agli umilianti condizionamenti che le erano stati imposti e l’indebolimento della posizione britannica di fronte al dollaro, ponevano il mondo politico ed il sistema economico internazionale di fronte a dilemmi nuovi e drammatici. Del primo aspetto la responsabilità sarebbe spettata ai politici che avevano sostituito la vocazione a costruire di un tempo con la capacità di distruggere del presente di allora unendo all’ingegnosità del fare la forza di disfare e avevano diretto la Conferenza della pace di Parigi del 1919 conclusasi con la sottoscrizione nella Galleria degli Specchi della Reggia di Versailles di un Trattato di pace che avrebbe gravato la Germania di oneri insostenibili generando ripercussioni in tutto il mondo. Il gold standard aveva agito – per dirla con John Maynard KeynesJohn Maynard Keynes, primo barone Keynes di Tilton (Cambridg... Leggi – come una benigna influenza regolatrice e livellatrice ma, dopo il 1929, l’equilibrio si sarebbe dovuto ricuperare da pratiche deflazionistiche studiate dai governi. Con quante più problematicità ed incertezze è facile immaginare. Nel 1929 l’opinione pubblica americana, presa dal panico della crisi incipiente, si era facilmente convertita all’idea che il capitalismo – che i progressisti più illuminati descrivevano senz’altro morto – fosse un sistema almeno instabile e che lo Stato avrebbe dovuto avere nel mercato una presenza più attiva per rimuovere la precarietà generata da un presunto, sconsiderato ed incontrollato intraprendere privato e fungere da elemento equilibratore a garanzia della sicurezza sociale. Il crollo economico rottamò nello stesso tempo l’opinione assai diffusa e rafforzatasi durante gli anni ’20 di una politica monetaria giudicata un potente strumento per assicurare al sistema stabilità economica. Si passò bruscamente da un eccesso all’altro. Si affermò l’opinione diametralmente opposta che la moneta non contava. Da parte sua, John Maynard KeynesJohn Maynard Keynes, primo barone Keynes di Tilton (Cambridg... Leggi, uno dei più brillanti economisti del XX secolo, non confermò esplicitamente l’assunto ma propose una sua propria innovativa teoria per superare le crisi che finiva con il fornire una giustificazione seducente e deleteria all’ampliamento della spesa pubblica. Il suo pensiero venne in buona misura forzato perché in lui la vanagloria faceva talvolta premio sulla scienza al punto da permettere una vera e propria coartazione del suo pensiero per infilarci argomenti che inizialmente non ci si trovavano (anche se, proprio perché alterati, piacevano) e di consentire ai discepoli di divaricare fra il suo giudizio, sino a stravolgerlo, e la sua corrente lettura. Quasi potesse nientemeno tradursi in una raccomandazione per un più esteso intervento pubblico. Lo studioso inglese aveva escogitato una proporzione fissa, definita moltiplicatore, tra la produzione di beni di investimento e quella di beni di consumo cosicché – ovviamente é una semplificazione puramente discorsiva – dalla somma di investimenti si poteva giungere a determinare il reddito di una nazione. Un giuoco, quasi, da ragazzi, insomma. Non tutti erano in grado di entrare nei meandri della questione ma tutti erano ben contenti di uniformarvisi: così industriali e commercianti potevano alzare i prezzi senza essere demonizzati; ai sindacati interessava poter garantire che le paghe non sarebbero state ridotte anche quando ci fosse stata disoccupazione, per i politici, ma in buona misura un po’ per tutti, a dire il vero, era una manna. Se spendere, già di per sé, non era peccato, ci si trovava già su di una buona strada; se, in più, spendendo, si contribuiva persino a migliorare l’economia, era una vera pacchia. La Teoria generale di John Maynard KeynesJohn Maynard Keynes, primo barone Keynes di Tilton (Cambridg... Leggi é formulata partendo dalla situazione creatasi con la crisi del 1929. Questa é passata alla storia e si pretende sia un fallimento del capitalismo liberista. In sua vece si poteva fantasticare una luminosa era di pianificazione e la prospettiva di una pace universale. La pianificazione era una balla del razionalismo costruttivista che pretende di regolare ogni cosa con la Ragione, la pace universale sarebbe sfociata nella Seconda Guerra Mondiale e in effetti la pace eterna raggiunse milioni di persone. Si andava consolidando piuttosto il primato della politica, in buona sostanza l’esclusiva supremazia dei politici, equivalente al disfacimento di qualsiasi diverso valore culturale.
Si formava un primo disvalore: la politica per la politica. Significa non riconoscere che l’onnipotenza della politica è solo un mito. Significa non vedere i costi del primato della politica, non saper contrapporre ai vantaggi di breve termine i costi dì medio – lungo termine. Diceva Ronald Reagan: La politica è stata definita la seconda più antica professione del mondo. Certe volte trovo che assomigli molto alla prima. In realtà, la Depressione non fu affatto una capitolazione dell’iniziativa privata ma un clamoroso fiasco del potere pubblico in un’area di sua stretta e tradizionale competenza: battere moneta, regolare il suo valore e quello della moneta estera. E’ opinione comune che essa sia iniziata con il crollo della Borsa di New York il 24 ottobre 1929, passato alla Storia come il giovedì nero. Dopo allucinanti traversie il tutto finì nel 1933 quando i valori di mercato si erano ridotti a circa un sesto del loro livello del 1929. Il sisma verificatosi nel mercato azionario, per quanto importante, non determinò in realtà l’inizio della Depressione. Al tempo della frana la Federal Reserve Bank di New York per ammortizzare il colpo sul nascere prese autonomamente l’iniziativa di acquistare titoli di Stato accrescendo tanto le riserve delle banche che la liquidità sul mercato. Ciò permise alle banche commerciali di attenuare la batosta essendo in grado di rifornire gli operatori nel mercato borsistico con prestiti addizionali e ricorrendo all’acquisto di titoli di aziende in difficoltà per mantenerle vive e in efficienza. Malauguratamente nella questione volle interferire il Federal Reserve Board per imporre il suo diktat a New York che non riuscì a resistere. Invece di accrescere l’offerta di moneta per controbilanciare la contrazione di attività il Board lasciò che la quantità di moneta si assottigliasse lentamente per tutto il 1930. L’effetto congiunto dei contraccolpi dati dal crollo del mercato azionario e dalla lenta diminuzione della quantità di moneta durante il 1930 fu una seria recessione. Quando nel 1931 la Gran Bretagna abbandonò il gold standard il sistema, dopo due anni di profonda depressione, reagì elevando il tasso di sconto per scoraggiare il drenaggio delle sue riserve auree da parte dei detentori esteri di dollari. Sbagliando una volta di più perché l’effetto all’interno fu vistosamente deflazionistico e sottopose banche commerciali ed imprese ad un ancor maggiore stress. L’autorità monetaria, come già aveva fatto sapientemente ma isolatamente a New York, avrebbe potuto compensare le difficoltà con corrispondenti acquisti di titoli di Stato. Ma non lo fece e il sistema bancario centrale, istituito principalmente per scongiurare le conseguenze delle crisi economiche e rendere superfluo in caso di emergenza il ricorso alla limitazione dei pagamenti, mancò vistosamente all’appello rinunciando alla sua istituzionale ragione di vita. Quasi a dimostrare la tesi di Friedrich August von HayekFriedrich August von Hayek (Vienna, 8 maggio 1899 – Fribur... Leggi riguardo a qualunque banca centrale: Dubito che essa abbia mai fatto qualcosa di buono eccetto che ai governatori e ai loro favoriti …, il sistema finì in pratica per unirsi alle banche commerciali nella più vasta, totale ed economicamente esiziale restrizione dei pagamenti mai registrata nella storia degli Stati Uniti. Nel corso di 3 anni, dal 1929 al 1931, la New York Federal Reserve Bank invitò ripetutamente, ma invano, il Sistema ad impegnarsi in acquisti di mercato aperto su vasta scala per generare liquidità e, in buona sostanza, per far ripartire l’economia. Le proposte di New York furono sempre ostinatamente respinte. Non perché fossero sbagliate o irrealizzabili ma unicamente e scioccamente a causa di una lotta di potere in atto all’interno del Sistema. Il Federal Reserve Board strozzò la circolazione della moneta e contribuì a rendere drammatica una crisi che altrimenti sarebbe stata probabilmente superata con qualche dolorosa conseguenza ma senza tanti e così amari traumi. Gli effetti della Grande Depressione si estesero ovunque in modo persistente e duraturo. In Germania essa favorì l’ascesa al potere di Hitler, in Giappone rafforzò la fazione militare che portò il Paese alla Seconda Guerra Mondiale, in Cina produsse alterazioni monetarie disastrose, tali da far dilagare un’inflazione in grado di segnare il definitivo tramonto del regime di Chiang Kai-shek. Dopo il ’29 il primato della politica si impose, grazie anche ai citati orientamenti, e venne ribadito con estrema determinazione tanto nella sua edizione democratica (dal New Deal tipicamente americano di Franklin Delano Roosevelt al socialismo scandinavo dal volto umano) quanto in una scellerata versione totalitaria (i piani quinquennali russi ed il riarmo hitleriano, perché sia Hitler che Stalin si vantavano di saper andare oltre il capitalismo, di essere capaci di superare le crisi, di poter eliminare la disoccupazione e di creare un reale benessere economico). Purtroppo, a confondere le acque e a far pensare che l’immistione dello Stato nell’economia non fosse una vera e propria iattura ma quasi una panacea capace di risolvere tutti i mali, sopraggiunse la guerra e fu essa, e non il New Deal, a chiudere definitivamente il ciclo della Grande Depressione malgrado i politici continuassero a diffondere la credenza di un merito tributabile all’immistione statale. Il keynesismo, come detto, stava bene a tutti. Anzi, a dire il vero, quello di Hitler funzionò persino meglio del New Deal. Nel 1938 il reddito nazionale degli Stati Uniti era del 23% ancora inferiore a quello del 1929 mentre la Germania nazista del 1938 poteva vantare un reddito del 5% superiore a quello del 1929. Abbondantemente l’andamento avverso dell’economia fu utilizzato dai politici come giustificazione teorica alla propensione di sperperare denaro pubblico ma, nel caso di specie, forniva altresì una non richiesta, eppur assai gradita, espansione al loro potere. Atteso che, nei periodi di crisi, bastava investire, come suggeriva il KeynesJohn Maynard Keynes, primo barone Keynes di Tilton (Cambridg... Leggi, per aumentare il reddito, si era trovato un alibi scientifico eccellente e l’impegnare soldi pubblici induceva facilmente una vasta irresponsabilità sino a vagheggiare addirittura un fantomatico capitalismo di Stato. Senza capitalisti. Luigi EinaudiLuigi Einaudi (Luigi Numa Lorenzo Einaudi, Carrù, 24 marzo ... Leggi in un articolo del 1933 aveva fortemente criticato il piano proposto da KeynesJohn Maynard Keynes, primo barone Keynes di Tilton (Cambridg... Leggi. Aumentare la quantità di moneta significa produrre inflazione, ma l’aumento dei prezzi suggerito dall’economista inglese equivale a una imposta, ad una imposta assai particolare perché è in condizione di alterare l’equilibrio dell’economia reale.

Il mondo delle banche e l’esplosione della finanza
Erano stati gli Stati Uniti d’America ad avviare il genere umano al lusso dei consumi opulenti, spalleggiati in ciò dalla prorompente esplosione in tutto il mondo occidentale del Welfare State che rinforzò dopo la Dichiarazione universale dei diritti umani promossa dall’O.N.U. nel 1948 e ciò malgrado il fatto che né gli Stati Uniti né l’Europa fossero (e siano) in grado di produrre un reddito bastante ad alimentare l’illusoria speranza che da tutto ciò derivava. Era una cattiva politica quella di causare un’irragionevole mitizzazione del mercato che, a sua volta, incoraggiava un accrescimento anomalo di un comparto finanziario che era sempre più spesso dedito alla pura speculazione, senza soverchi agganci con il mondo reale. Sintomatica, in merito, la vicenda di Goldman Sachs. A pochi mesi dalla crisi di Borsa del 1929 la Goldman Sachs & C. – una delle maggiori (e più discusse) banche d’affari del mondo che si occupa prevalentemente di investimenti bancari e azionari, di risparmio gestito e di altri servizi finanziari e che, fra ex dipendenti ed ex consulenti può annoverare personaggi di prim’ordine quali i Segretari al Tesoro statunitensi Robert Rubin e Henry Paulson, l’ex Presidente del Consiglio italiano Romano Prodi, suo consulente dal 1990 al 1993 e dopo il 1997, Gianni Letta, sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri nei governi guidati da Silvio Berlusconi e nominato a suo tempo advisor di Goldman Sachs, il Governatore della Banca centrale europea Mario Draghi, Vicepresidente di Goldman Sachs per l’Europa dal 2002 al 2005, e l’attuale Presidente del Consiglio italiano Mario Monti, tra il 2005 e il 2011 international advisor della banca e, più specificamente, membro del Research Advisory Council del Goldman Sachs Global Market Institute – aveva costituito (dicembre 1928) la Goldman Sachs Trading Corporation e aveva lanciato in rapida successione la Shenandoah Corporation (luglio 1929) e la Blue Ridge Corporation (agosto 1929). Per dare un’idea del clima di eccessiva euforia di quel tormentato periodo vale la pena di accennare a questi avvenimenti e si è spesso ripetuto che la banca avesse sfiorato un disastroso crollo per via del quasi immediato fallimento della appena nata Goldman Sachs Trading Corporation (autunno 1929), dal funzionamento che i maligni hanno parificato allo schema Ponzi, un sistema tendenzialmente truffaldino. John Kenneth Galbraith, d’altronde, allora scrisse: l’autunno del 1929 fu forse la prima occasione in cui gli uomini riuscirono a truffare se stessi. Nel 1932 l’attore Eddie Cantor intentò causa alla Goldman Sachs per 100 milioni di dollari e incluse nel proprio spettacolo con amara ironia battute tipo: Mi avevano detto di comperare quelle azioni per quando fossi diventato vecchio e ha funzionato perfettamente: nel giro di sei mesi mi sono sentito davvero molto vecchio.

L’abolizione del confine tra banca commerciale e banca d’affari
Che il keynesismo significasse, in ultima analisi, spreco statale e spesa pubblica in libera uscita e che la Grande Depressione fosse principalmente imputabile alla carenza intellettuale per l’incapacità di comprendere appieno il funzionamento del sistema economico, si tratta di eventi che stanno sotto gli occhi di tutti. In aggiunta si é successivamente proposto un altro tragico errore di politica economica. Già banchiere di Goldman Sachs e di Citigroup, chiamato in era Clinton alla guida del ministero del Tesoro americano (successivamente grande sostenitore di Barack Obama e di lui apprezzato consigliere tanto da poter sistemare a fianco del presidente come superconsulente il suo protetto Lawrence Summers, dimissionario nel 2010, e da poter portare al ministero un altro personaggio a lui vicino, Timothy Geithner, tuttora membro della compagine governativa) Robert Rubin si fece venire la sventurata idea di ingegneria finanziaria che portò a metà degli anni ’90 alla funesta abolizione del confine tra banca commerciale e banca d’affari. Il confronto con i suggerimenti forniti dalla scienza economica è impietoso (si rileggano, giusto per considerare che la notazione non è una trovata di oggi vista a posteriori ma è un principio che vale da sempre, le lezioni di Costantino Bresciani-Turroni (Corso di economia politica, dott. A. Giuffré Editore, Milano, 3.edizione, Milano, 1957): Già in un regime monetario non più basato sull’oro, la situazione del mercato, e pertanto dei prezzi, è instabile, se non è rigorosamente limitata la quantità di moneta in circolazione. Tenuto in debito conto che Il problema è complicato dal fatto che sia in un regime aureo, sia in un regime cartaceo, accanto alla moneta legale si è diffuso un altro mezzo di pagamento creato dal credito bancario e che L’esperienza ha dimostrato che è possibile che quest’ultimo si espanda esageratamente onde è necessario un controllo quantitativo del credito da parte delle autorità monetarie, è evidente la derivabile conclusione: quando il credito provoca un’espansione o una contrazione della capacità di acquisto di una collettività, senza che queste fluttuazioni siano neutralizzate da corrispondenti variazioni nel volume delle merci scambiate, esso, a causa di questa sua elasticità, è fattore di instabilità del sistema economico … Perciò, rendendo troppo facili le condizioni dei prestiti, la Banca può provocare una malsana espansione della domanda. L’esperienza ha oggettivamente dimostrato come, attraverso un organo di controllo di natura istituzionale, ma quanto più possibile apolitico per garantirne l’indipendenza e l’imparzialità, sia essenziale impedire una propagazione esagerata del credito bancario perché foriera di sicuri ed ineluttabili disordini nell’economia reale di un Paese. In materia, tale organismo governativo ha il compito di svolgere quindi una delicata doppia funzione di controllo: della quantità di moneta in circolazione e dei limiti di allargamento del credito bancario. La soluzione del problema non consiste nell’affidare alle banche di deposito compiti che esse non possono assolvere il punto d’arrivo dell’economista. Di sicuro, banca commerciale e banca d’affari sono due organismi affatto diversi e che devono essere tenuti separati, il che non era presupposto sconosciuto nemmeno in America. Il Glass-Steagall Act del1933 aveva regolamentato l’intermediazione bancaria per la tutela dell’interesse pubblico sancendo la separazione fra attività bancaria commerciale, esercitata attraverso la raccolta di depositi presso la clientela e l’erogazione di credito commerciale e industriale, e attività bancaria di investimento, esercitata – fra l’altro – intermediando titoli di credito e di partecipazione sia sul mercato primario sia su quello secondario (e inoltre sia come dealer, cioè per conto proprio, che come broker, cioè per conto terzi) oltre che, ad esempio, assumendo partecipazioni azionarie in imprese non finanziarie. Il concetto era stato autorevolmente ribadito con il Bank Holding Company Act del 1956 che impediva all’impresa bancaria persino la gestione di ogni altro tipo di impresa.
Gli acquirenti di immobili, dai mutui e dalla garanzia statale ai c.d. derivati
Il progetto di dare a tutti una casa è un evento inebriante e molto democratico. Riuscirvi consentirebbe ad un politico ambizioso di passare alla storia. I vecchi principi economici di prudenza e di controllo, per conseguire un così prestigioso traguardo, potevano essere dimenticati e così, malauguratamente, fece il governo americano esercitando una consistente pressione psicologica sulle banche perché cooperassero di buon grado ad una iniziativa supposta come altamente e lodevolmente sociale: tra il 1994 e il 1999 due milioni di afroamericani e di latinos, grazie alle aperture governative, ingrossarono le fila degli acquirenti di immobili. Non avendo niente con cui onorare il debito non avevano nemmeno niente da perdere. Intanto si cominciava con il non pagare l’affitto e ciò era già una buona cosa perché permetteva un grande sospiro di sollievo. Il bene acquistato veniva posto a garanzia e il debito poteva raggiungere il 100% della sua stima di valore e non il 50% come la tecnica bancaria assennatamente suggerisce facendo sì che la garanzia si rivelasse sin dall’inizio precaria. Anzi, già che si era in ballo, al prestito poteva anche essere aggiunto un extra perché la casa si sarebbe dovuta arredare e, se già mancavano i soldi per l’acquisto, si sarebbe potuto, giusto per completare degnamente l’opera, arrivare in soccorso dei più squattrinati fino ad un 25% addizionale. La garanzia diventava quindi ancora più precaria. Per le banche peraltro non si sarebbe trattato di correre sconsigliabili avventure. Ci sarebbe stata su tutti e su tutto la garanzia statale, a carico nominalmente di due agenzie semigovernative, Fannie Mae (Federal National Mortgage Association) e Freddie Mac (Federal Home Loan Mortgage Corporation), ma, in realtà, dell’ignaro contribuente americano. Le due agenzie erano in effetti enti denominati GSE (Government Sponsored Enterprise) che complessivamente garantivano circa la metà dei mutui ipotecari Usa. La garanzia era provvidenziale per le banche – altrimenti esse non avrebbero mai potuto accettare – ma suicida per gli Stati Uniti. L’idea di partenza era stata del governo di Bill Clinton ma non era un’esclusiva del partito democratico se, ancora nel 2003, il successivo Presidente, repubblicano, George W. Bush firmava, il 16 dicembre, l’American Dream Downpayment Assistance Act per stanziare fino a 200 milioni di dollari per i 4 anni dal 2004 al 2007 a promozione dell’abitazione in proprietà, particolarmente a vantaggio di cittadini a basso reddito e appartenenti a minoranze etniche. Istigare le banche, come è successo, a concedere mutui indiscriminatamente a tutti, anche a chi era ovvio e lampante si sarebbe rivelato insolvente, è la sciocchezza incommensurabile compiuta dalle autorità monetarie americane, cioè dal governo a stelle e strisce. Con un doppio risvolto: l’azzardo dell’insolvenza avrebbe poi causato il terremoto finanziario e la malsana lezione di levarsi di dosso il senso di responsabilità. Dato che i governanti mai avrebbero potuto rinfacciar loro un comportamento irresponsabile per averglielo, prima, diligentemente spiegato, le banche e le agenzie, assimilata l’implicita ma incosciente dottrina dettata dai pubblici poteri, hanno dispiegato tanta buona volontà per approfittare in proprio delle circostanze e concludere lucrosi affari. Più contratti conclusi, più provvigioni. Più provvigioni, più compensi per i banchieri. Insolvenze, per contro, sempre e soltanto a carico dello Stato. Difficoltà zero. Il sistema bancario ha potuto frazionare i mutui e generare la proliferazione dei c.d. derivati per un’enfatizzata, incontrollata e perciò micidiale propagazione delle operazioni finanziarie. I CDO (collateralised debt obligation) ceduti dalle anzidette agenzie semigovernative al mercato, sono scatole cinesi, sono a cascata, si versano, dopo un’oculata miscelazione di vari debiti nell’illusione di parcellizzare al massimo i rischi delle singole operazioni, il primo in un secondo, e poi in un terzo e così via a seguire (l’immagine più appropriata per descrivere il fenomeno è per tanti versi la catena di sant’Antonio), con diversi gradi di pericolosità implicita, ovviamente tanto maggiore quanto più ci si allontana dall’origine. Il macroscopico ingannevole presupposto di prestiti senza concreta copertura perché moltiplicati all’infinito a fronte di un unico immobile a garanzia del tutto ha messo il sistema bancario in ginocchio. Intuendo l’intrinseca pericolosità del congegno molti hanno provveduto a sottoscrivere polizze assicurative ad hoc presso agenzie specializzate (la più importante è la AIG, American International Group) con contratti CDS (credit default swaps) che hanno fruttato nuovi affari per banche ed assicurazioni. La soluzione adottata non è però risultata risolutiva né per le une né per le altre ed, in realtà, anche le compagnie assicurative hanno dovuto cominciare a rimborsare una moltitudine di titoli in default e finire in crisi. Una domanda, quanto ai CDS, sorge spontanea: se si stava realizzando un’operazione ordinaria, per di più benedetta dalle pubbliche autorità, alla luce del sole, perché sarebbe stato necessario assicurarsi? Un qualsiasi contratto assicurativo viene sottoscritto contro l’incognita che deriva da una situazione di estrema incertezza o dall’imponderabile. Così, ad esempio, è il caso di un’assicurazione sulla vita o di quella per i danni da incendio oppure per il naufragio di una nave. Se in un’operazione di mutuo immobiliare si presenta una minaccia di insolvenza, questa non può dipendere dal caso o dalla malasorte ma unicamente dal comportamento del debitore e l’ipoteca per importo molto superiore al debito è la più normale garanzia di rientro del prestito. Che bisogno c’é di una polizza assicurativa? I CDS sarebbero in fondo un’assicurazione conto il default di un titolo, ma, in quanto strumenti finanziari, non erano nemmeno sottomessi alle regole alle quali è tenuta un’assicurazione il che creava una mescolanza che levava tutti i confini più sensati fra assicurazione e finanza. Si pagava un premio per l’acquisto di questi credit default swap, non per assicurarsi ma per speculare. Che macroscopico inganno. I semi del disastro, piantati tanti anni prima (standard ipotecari permissivi, tassi bancari storicamente bassi, sistema dei compensi di Wall Street a premiare chi correva rischi a breve termine) dovevano per forza avere uno sbocco naturale doloroso. La crisi conseguente è stata inevitabilmente coperta dallo Stato che l’aveva proposta e garantita ma ciò ha avuto l’effetto di aumentare smisuratamente il debito pubblico americano. Le decisioni incongruenti di Hank Paulson, amministratore delegato di Goldman Sachs e Segretario al Tesoro degli Stati Uniti sotto la presidenza di George W. Bush nel 2006, di Ben Shalom Bernanke, Presidente del Comitato dei Governatori della Federal Reserve, di Tim Geithner, già presidente della Federal Reserve di New York, amicissimo dei banchieri di Wall Street, sottosegretario al Tesoro alla fine della presidenza Clinton, per un paio di anni al Fondo monetario internazionale e dal 26 gennaio 2009 Segretario al Tesoro degli Stati Uniti nell’Amministrazione Obama, lasciano senza risposta parecchi interrogativi. Perché tenere in vita le banche agonizzanti che avevano provocato il cataclisma? Perché il salvataggio delle due agenzie semigovernative (Fannie Mae e Freddie Mac) se non, forse, per il fatto di essere semigovernative? Perché nessuna banca è stata chiamata a pagare se non, forse, per il fatto di essere too big to fail (troppo grosse per fallire, come dichiara Andrew Ross Sorkin nel suo libro documentario: Il crollo. I retroscena: come Wall Street e Washington hanno cercato di salvare il sistema finanziario e se stessi, Istituto Geografico De Agostini, Novara, 2010). Perché nessuna fra loro ha pagato salvo Lehman Brothers che pure era una grande banca se non, forse, in forza del suo intrinseco difetto di essere privata e perciò assoggettabile a fallimento? Hanno finto di aver tracciato una linea sulla sabbia, con Lehman Brothers, e due giorni dopo hanno fatto un altro salvataggio si lamentò Nouriel Roubini, professore alla Stern School of Business della New York University. Molti dubbi comportamentali: perché sostenere il salvataggio di Bear Stearns ma non quello di Lehman Brothers? Perché abbandonare Lehman Brothers al Capitolo 11 per salvare invece AIG (American International Group, Inc.) subito dopo? L’omesso soccorso a Lehman Brothers è, fra l’altro, tragico non perché la banca lo meritasse ma alla luce del danno provocato dal suo fallimento che ha negativamente e profondamente inciso sul mercato e sull’economia mondiale. Perché era chiaro – anche se non legalmente giustificabile – che il fallimento di una banca era stato da sempre escluso da ogni possibile eventualità e i risparmiatori del principio erano ormai stati convinti. Resta indiscutibile una conseguenza. Il vecchio sistema bancario, giudicato arcaico, venne sostituito dall’apprezzamento del rischio affidato alle società di rating. Che le tre più note agenzie di rating siano finanziate dalle stesse società che esse, poi, sono chiamate a giudicare non pare essere proprio un’opzione felice, oggettivamente tranquillizzante. Tuttavia, deve essere una cosa normale dato che la stessa situazione si verifica per la Federal Reserve che è partecipata dalle stesse banche che dovrebbe tenere sotto controllo o per la Banca d’Italia i cui soci sono le banche di credito ordinario anche se non dovrebbe essere difficile immaginare si dia in tutte queste situazioni l’ipotesi scolastica di controllati che sono insieme controllori. Moody’s, Fitch e Standard & Poor’s (tre società private americane che operano sotto licenza in regime di oligopolio) non dovrebbero nemmeno più esistere tanto hanno perso credibilità per aver commesso errori macroscopici, garantendo valutazioni eccellenti a compagnie come Enron e Lehman Brothers anche quando queste stavano procedendo speditamente verso il fallimento. Nel concreto, la ponderata rettifica delle regole dettò condizioni per la loro più raffinata elusione al punto da creare un metodo nuovo per imbrogliarle con metodi di assoluta legalità. Il comportamento della Federal Reserve è al proposito esemplare. Ha ammesso allo sconto in un primo tempo la società finanziaria americana JP Morgan per conto di Bear Stearns per poi erogarle un finanziamento speciale e consentirle l’acquisto della stessa Bear Stearns. Ha ridotto il tasso di sconto sui finanziamenti diretti alle banche per successivamente dare l’annuncio di un nuovo programma di misure finanziarie di sostegno a favore di altri primari operatori di Wall Street. Ha richiesto al Congresso l’autorizzazione per corrispondere interessi sulle riserve detenute dalle banche presso di lei. È sempre sua la decisione di ammettere allo sconto Fannie Mae e Freddie Mac. Harry Markopolos, un investigatore indipendente di frodi finanziarie, ha saggiamente detto: se paragonata alla FED, che ha precipitato questo paese nell’abisso della bancarotta nazionale per essersi rifiutata di controllare le banche – o per non averlo saputo fare – la SEC sembra quasi un organismo competente. E’ quindi grazie all’inettitudine di chi avrebbe dovuto regolare la finanza che la Wall Street che conoscevamo non esiste più, e che tante fra le maggiori banche di questo paese si reggono oggi sul sostegno pubblico. Di fatto, gli interventi effettuati (sia quelli di finanziamento diretto come Bear Stearns e AIG, sia quelli a garanzia come Citygroup) hanno fatto perdere alla Federal Reserve la propria indipendenza, trasformandola in un’agenzia del Governo.
L’aumento del debito pubblico americano e la crisi finanziaria mondiale
Non si può scordare, per dovere di onestà, che le spese militari americane sono all’incirca quadruplicate a partire dal 2001 per effetto degli attentati islamici contro le Twin Towers di New York ed il Pentagono. Tuttavia, la politica di deficit spending adottata dal governo americano per risollevare le sorti dell’economia, per tenere in vita le banche agonizzanti e per il salvataggio di Fannie Mae e Freddie Mac, ha portato ad uno straordinario aumento del disavanzo che ha ormai raggiunto limiti preoccupanti. Semmai proprio l’urgenza della guerra al terrorismo, giuocata a carico degli Stati Uniti ma, sarebbe bene non dimenticarlo, a favore dell’intero Occidente, ed il suo peso sulle spese del bilancio statale avrebbero dovuto indurre alla massima prudenza. Sta bene intervenire a favore delle banche in difficoltà ma ciò non può giungere sino a giustificare politiche bancarie azzardate ed errori di colpevole gestione perché, così facendo, si corre l’alea della demagogia a buon mercato. Un elementare principio di responsabilità impone a chi sbaglia di pagare. Esemplari, al riguardo ma a rovescio, sono le vicende del Monte dei Paschi di Siena. La crisi della banca è palese ha scritto Alessandro Platero su Il Sole 24Ore del 29 novembre 2012: potrebbe essere una banca in una situazione del tutto diversa se i veti incrociati della politica, dei sindacati e della Banca d’Italia targata Antonio Fazio non avessero bloccato la libertà decisoria della banca. Alla Fondazione che era allora guidata da Giuseppe Mussari fu impedito di fondere la banca con la BNL (Banca Nazionale del Lavoro), che fu poi acquistata da BNP (Banque National de Paris Paribas). Pochi lo sanno, ma bloccando la fusione MPS-BNL per favorire la scalata mancata di Unipol alla stessa BNL – prosegue l’articolista – l’intreccio tra politica e finanza di quegli anni impedì anche una seconda operazione: la fusione tra il Monte e il Bbva, il Banco di Bilbao che era allora grande azionista di BNL. Questo progetto che avrebbe dato a Siena solidità e dimensioni continentali, naufragò solo perché la politica senese, Fazio e il vertice romano dei Ds preferirono lanciare la scalata di Unipol a BNL. E fu così che Mussari fece l’errore di acquistare Antonveneta. In un successivo articolo non firmato de Il Sole 24Ore in data 17 dicembre 2012 si è dato conto del fatto che La Commissione Ue ha dato il via libera temporaneo alla ricapitalizzazione del Monte dei Paschi di Siena per 3,9 miliardi. La giustificazione addotta è almeno criptica. La Commissione ritiene che la ricapitalizzazione di MPS mediante strumenti ibridi di capitale sia necessaria per preservare la stabilità del sistema finanziario italiano, in linea con la comunicazione della Commissione sulle norme in materia di aiuti di Stato alle banche nel contesto della crisi finanziaria. Francamente non è così chiaro come possa il finanziamento da parte dello Stato italiano non configurarsi come un aiuto di Stato, se si giudica che l’aiuto di Stato sia un male che non si deve praticare. L’articolo sopra citato de Il Sole 24Ore in data 17 dicembre 2012 titolava d’altronde il pezzo sintomaticamente ed inequivocabilmente: MPS, l’Ue approva piano aiuti di Stato da 3,9 miliardi. Gli americani – tornando alle vicende di quel Paese – dal canto loro non risparmiano abbastanza e non sono in grado di finanziare da soli il piazzamento sul mercato dei loro Buoni del Tesoro e, pertanto, oltre la metà del debito pubblico deve obbligatoriamente essere finanziato dagli stranieri, l’economicamente rampante Cina in testa, dando luogo a indigeste situazioni di dipendenza verso l’esterno che, alla lunga, si ripercuoteranno sull’indipendenza del Paese. Allo stato attuale della politica statunitense, il Presidente Barack Obama non dovrà lasciarsi troppo lusingare da chi vorrebbe che facesse qualcosa di sinistra o coltivasse irresponsabilmente la politica di continuare a favorire sfacciatamente il sistema bancario e finanziario o si avviasse a varare una maggiore tassazione per riparare i danni o intendesse adottare selettivi provvedimenti protezionistici o ricorresse ad interventi populistici come il progettato sistema sanitario nazionale che non migliorerà la sanità USA ma sicuramente aggraverà il bilancio statale. L’azione dello Stato potrà ora salvare l’America dal collasso ma, se non sarà ragionevolmente fattibile creare al più presto nuova ricchezza per pareggiare il disavanzo, ciò potrà accadere solo nel breve termine dato che una posizione sconsiderata espone, a lungo andare, una moneta all’assalto della speculazione internazionale e l’economia a forti sballottamenti. Sull’equilibrio del mercato e sulla moneta incidono in effetti diversi fattori e il loro insieme si deve posizionare in armonia: la capacità di produzione di beni e servizi, la quantità di beni offerti, la quantità di moneta disponibile e la sua velocità di circolazione. Ma si deve tener conto altresì del comportamento generale degli uomini, delle propensioni dei risparmiatori, dell’atteggiamento delle imprese, delle valutazioni degli speculatori. Né si possono impunemente dimenticare poi gli interventi di politica economica nonché i rapporti che derivano dai regolamenti degli scambi internazionali e la sempre più larga diffusione, accanto alla moneta legale, come si è più sopra ricordato, di un altro mezzo di pagamento: il credito bancario. Classico strumento di controllo dei volumi di moneta in circolazione era stata in passato la manovra del tasso di sconto. Ora non so. È sicuro, tuttavia, che, in aggiunta ai crediti bancari, con gli attuali derivati si moltiplichi esponenzialmente il rischio che diviene praticamente incontrollabile. Warren Edward Buffet, imprenditore ed economista statunitense di ampia credibilità, ha definito i derivati – tanto per averne un’immagine di sostanza – come armi finanziarie di distruzioni di massa. Le grandi banche internazionali e gli hedge funds operano da meccanismo propulsore delle Borse. Cinque sole banche al mondo (JP Morgan Chase, Bank of America, Goldman Sachs, Morgan Stanley e Citigroup) agiscono in regime di oligopolio e controllano il 75% delle negoziazioni dei credit default swaps. La speculazione al ribasso sui mercati internazionali, tipica attività degli hedge funds, si fonda sulla presunta (ma non tanto infondata) incapacità della politica di raddrizzare i conti pubblici e di consentire la ripresa dell’economia con un potere che né la Federal reserve né il Tesoro americano, di fatto controllati dagli stessi big players i quali influenzano pure Casa Bianca e Congresso, sono in grado di contrastare efficacemente. Quanto alla SEC, sostengono A. Alesina e F. Giavazzi (La crisi. Può la politica salvare il mondo?, Milano, il Saggiatore, 2008), l’agenzia alla quale il Congresso aveva assegnato la responsabilità di vigilare sul mercato non ha vigilato e Da sei, sette anni a questa parte, il Comitato di Basilea e il Financial Stability Forum ripetono che le banche di investimento sono fragili perché hanno troppo poco capitale in rapporto ai rischi cui si sono esposte. Ma questi allarmi sono caduti nel vuoto o sono stati ignorati di proposito. Gli hedge funds provengono dagli Stati Uniti dove sono sorti una sessantina di anni fa, sono destinati ad investitori che devono essere adeguatamente informati della loro rischiosità visto che essi operano con regole meno rigorose di quelle rivolte agli altri operatori finanziari. Basti aggiungere che non è infrequente trovarli impegnati nei c.d. paradisi fiscali e che, nel caso italiano, è prevista un’informativa specifica a favore dei clienti perché – allo scopo di venire adeguatamente informati della implicita realtà – sia loro obbligatoriamente segnalata la circostanza che i fondi vengono gestiti in deroga ai divieti stabiliti dalla Banca d’Italia e dalla CONSOB. Alcuni nodi stanno comunque venendo al pettine. Non soltanto negli USA ma anche in Europa. La britannica Barclays Bank ha patteggiato una multa di 453 milioni di dollari ma lo scandalo ha costretto alle dimissioni il Chief Executive Officer Bob Diamond e il Presidente dell’Istituto Mark Agius (Il Sole 24Ore, 3 luglio 2012). Dodici banche, fra le quali spiccano le francesi Crédit Agricole e Société Générale, la tedesca Deutsche Bank, l’inglese Barclays e la svizzera UBS, si trovano nel mirino delle autorità europee, secondo il Wall Street Journal, per presunta manipolazione dell’Euribor, l’indice di riferimento per i tassi di interesse su miliardi di euro di prodotti finanziari (Il Giornale, 11 dicembre 2012). HSBC (ancora Il Giornale, 15 dicembre 2012) è stata sospettata di riciclare danaro per i narcotrafficanti sudamericani e di aver ripulito qualche miliardo in favore dei terroristi arabi. Se non si è pervenuti ad un’eventuale sentenza di condanna è solo perché gli amministratori dell’Istituto bancario hanno inteso chiudere l’incidente giudiziario pagando allo Stato americano 1,9 miliardi di dollari. La ex Wachovia Bank, ora fusa per incorporazione in Wells Fargo, nel 2010 era stata costretta a pagare una multa di 160 milioni di dollari per dubbie operazioni compiute con le casas de cambio messicane. Le indiscrezioni, del Wall Street Journal e de Il Giornale, toccano altresì un’altra banca inglese, la Standard Chartered Bank, che ha patteggiato il pagamento di 327 milioni di dollari per aver eseguito transazioni proibite con l’Iran e altri paesi sanzionati (sempre Il Giornale, 11 dicembre 2012). La tedesca Deutsche Bank, la svizzera UBS, la tedesco – irlandese Depfa Bank (per avere sede in Dublino), oltre all’americana JP Morgan, sono state condannate dal Tribunale di Milano per una presunta truffa sui derivati (Huffington Post, 19 dicembre 2012). La svizzera UBS pagherà 1,53 miliardi di dollari di multa per lo scandalo LIBOR, un meccanismo volto a manipolare il tasso interbancario di riferimento per i mercati finanziari (Il Sole 24Ore, 19 dicembre 2012). Sembra che anche Royal Bank of Scotland sia destinata ad imboccare lo stesso percorso (Nicola Porro, Il Giornale, 15 dicembre 2012). La Banca centrale di Hong Kong ha annunciato di aver avviato un’indagine su UBS per presunte manipolazioni del tasso interbancario locale, equivalente del britannico LIBOR (la Repubblica, 20 dicembre 2012). Tutte queste iniziative per chiudere sul nascere così insistiti e ripetuti problemi giudiziari sarà solo prodotto da uno sviscerato amore per la pace universale, ma qualche sospetto dovrà pur venire. Come diceva l’on. Giulio Andreotti, a pensar male si fa peccato ma spesso si indovina. Negli Usa Fannie Mae e Freddie Mac potrebbero registrare perdite per oltre 3 miliardi di dollari a causa dello scandalo della manipolazione del LIBOR (La Repubblica, 20 dicembre 2012). Un quadretto non c’è che dire idilliaco. Deutsche Bank, fra l’altro, ha in sospeso, tanto per gradire, uno spiacevole caso di evasione fiscale e per evasione fiscale c’è poi la transazione che le italiane Intesa San Paolo ed Unicredit hanno definito con l’Agenzia delle entrate per mezzo miliardo di euro.
Si racconta che il numero uno di Bank of America, Ken Lewis, abbia ammesso di aver ingannato i propri azionisti al tempo della fusione con Merril Lynch e che il Procuratore pubblico di New York abbia deciso di aprire un procedimento civile anziché penale. Dick Fuld, numero uno di Lehman Brothers, aveva falsificato i bilanci, ma gli agenti federali non lo hanno neppure interrogato. In America i banchieri che agiscono come gangster vengono chiamati bankster. Un’espressione così birichina non sorge per caso ma ha, forse, un sottofondo oggettivo ed è tutto dire. Si forma in questo modo un secondo disvalore: il mondo delle banche, ovvero come sciogliere i lacci della correttezza e della responsabilità, ovvero, come ha osservato con sottile ironia lo statunitense Herald Tribune: siamo passati dal too big to fail (troppo grandi per fallire) al too big to jail (troppo grandi per la prigione). Per dire, comunque, quanto l’economia reale abbia sofferto di un andazzo almeno incosciente – in tutto il mondo e non solo negli Stati Uniti dove, a più riprese, dal 1995 a tutto il 2000, erano stati effettivamente adottati provvedimenti legislativi orientati alla deregulation finanziaria – è sufficiente pensare all’Europa, un mercato non del tutto marginale e secondario che, certamente, era ed è rimasto fortemente regolamentato. Pure in Europa, ciononostante, si è riversato il devastante impatto della crisi e i ripetuti attacchi all’euro di questi ultimi anni e l’intrinseca debolezza della moneta europea e la spregiudicatezza del suo mondo finanziario trovano causa e ragione a partire dalle difficoltà dell’economia americana. L’analisi però non deve essere esageratamente partigiana. L’Unione Europea, con sua grave ed inescusabile colpa, essendo priva di una legislazione unica, di politiche monetarie, economiche, fiscali, previdenziali, ecc. almeno armonizzate e capaci di far fronte unitariamente ai problemi e di livellare ragionevolmente i costi, non può comunque dalla verità dei fatti crearsi alibi fasulli né ritenersi al sicuro unicamente perché al riparo di una moneta comune. Il varo di una valuta europea poteva seguire ma ben difficilmente doveva precedere una razionale condotta condivisa ed una difesa di valori comune. Ogni attività, al punto in cui stanno le cose, deve in realtà, volta a volta, essere proposta, esaminata, concordata, approvata ed applicata da tutti gli Stati dell’Unione. Ciò richiede molto tempo e nel frattempo si rischia la paralisi. Il campanello d’allarme, d’altronde, non suona ora ma è di parecchio tempo fa, di quando si è fatta strada l’idea che le attese di sviluppo per il futuro non riusciranno mai e poi mai a colmare il vuoto finanziario dell’Europa e che il ritorno dagli investimenti effettuati mai e poi mai potrà essere sufficiente a ripianare lo sconfinato indebitamento accumulato negli anni passati dai Paesi europei. Se, come per l’Europa, la capacità di produrre reddito in America starà costantemente al di sotto dei suoi livelli di spesa, il destino di questo grande Paese potrebbe essere fatalmente segnato.
In fondo, si torna continuamente allo stesso punto. Il razionalismo costruttivista e la Dea Ragione ritengono l’uomo capace di concepire il futuro della civiltà e di modellare tutte le istituzioni esistenti ex novo senza l’aiuto della saggezza e delle esperienze antiche e il mondo moderno in ossequioso rispetto del novitismo disprezza di conseguenza la tradizione. Del razionalismo dogmatico che viene dal secolo dei lumi è rimasta oggi una sacca di mentalità antistorica che pensa di costruire il futuro dimenticando o facendo tabula rasa del passato e dei suoi insegnamenti mentre ogni sensata e ragionevole innovazione deve mantenere in esso le sue più profonde radici. Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera (Le condizioni per uscire dalla crisi le invasioni della politica, 11 agosto 2010), per sintetizzare il punto, ha detto: Pensare che la crisi sia stata prodotta da un eccesso di mercato, dalla finanza, o dalla globalizzazione, è una sciocchezza, sostenuta da chi ha interesse a evitare che si sottolineino le responsabilità della politica.
© Carlo Callioni 2012