• Mar. Apr 29th, 2025

Carlo Martello

Un blog per ospitare le mie opinioni su politica, economia, storia, e chi più ne ha più ne metta

La politica ha timore di sindacati e magistratura?

Hannah ArendtHannah Arendt

Di fatto, la politica sembra aver timore dei sindacati e della magistratura. La continua interferenza di queste forze condiziona e costringe il Paese a rispettarne la volontà e ad accettarne i condizionamenti senza, d’altro canto, che si possa contrapporre alcun countervailing power a bilanciare e moderare il loro operato e le loro prerogative. La prescrizione dell’art. 39 Cost., ad esempio e relativamente ai sindacati, prevedeva la registrazione e con la registrazione l’acquisto della personalità giuridica e la capacità di stipulare contratti collettivi con efficacia erga omnes. La diffidenza dei sindacati nei confronti di ogni limitazione imposta loro dal potere politico ne ha però impedito l’attuazione. Allo stato attuale, i sindacati seguitano ad operare come associazioni private e i contratti di lavoro stipulati dovrebbero avere efficacia limitata ai loro iscritti se non fosse che la dottrina prevalente e la giurisprudenza compiacente hanno ritenuto i contratti collettivi ugualmente applicabili alla generalità dei lavoratori, iscritti e non iscritti. Una frode alla Costituzione la definisce Michele Ainis (Corriere della Sera, 11 febbraio 2012). In effetti, lo stare con un piede dentro e uno fuori dalla legge travalica la semplice cronaca  per divenire insegnamento di una negativa relatività di comportamento da cui non può derivare alcunché di buono. Quanto alla giustizia, la recentissima polemica sulle ferie dei giudici è illuminante di uno stato cui fa velo ogni giudizio, è eccessiva ogni censura, è intollerabile qualsiasi rimprovero. Scrive in proposito il Presidente del Consiglio (L’Huffington Post, 25 gennaio 2015): Ma trovo ridicolo – e lo dico, senza giri di parole – che se hai un mese e mezzo di ferie e ti viene chiesto di rinunciare a qualche giorno, la reazione sia: Il premier ci vuol far CREPARE di lavoro. Risponde l’Associazione Nazionale Magistrati: Il problema non sono i magistrati, ma le promesse mancate, la timidezza in materia di prescrizione e corruzione, la proposta, alla vigilia di Natale, di depenalizzare l’evasione fiscale fino al 3%. Non pare che la replica abbia gran che a vedere con la valutazione espressa da Matteo Renzi ma, ancora una volta, si cade nel relativismo. Al proposito Hannah Arendt (Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Torino 1999) ammoniva: Gli uomini normali non sanno che tutto è possibile. Un aneddoto (Vittorio Feltri, Il Giornale, 5 febbraio 2012: Anni orsono, un commerciante di carni scoprì che un suo aiutante gli scopava la moglie. Seccato, il ma­cellaio lo licenziò nella speranza di salvare la propria famiglia, ma il li­cenziato adì le vie legali e il giudice emise un verdetto sfavorevole al cornuto, che fu obbligato a ripren­dersi nella ditta chi lo aveva fatto becco. L’episodio fece scalpore, ma non servì a modificare la regola. Che, difatti, è ancora in vigore) accomuna sindacato e magistratura in una valutazione sconcertante e induce sulla ridicola ma amara storiella alcune riflessioni sintomatiche. Il sindacato, pur di difendere il dipendente sotto la sua tutela, è disposto a tutto, anche a sostenere posizioni irragionevoli e indifendibili. Il magistrato è costantemente preoccupato delle sorti del lavoratore e fonda la sua tutela sullo Statuto dei lavoratori (Legge 20 maggio 1970 n. 300) che si preoccupa esclusivamente del lavoratore (titolo I Della libertà e dignità del lavoratore (articoli da 1 a 13) e del sindacato (titolo II Della libertà sindacale (articoli da 14 a 18) e titolo III Dell’attività sindacale (articoli da 19 a 27) oltre ai titoli IV, V e VI formati da 14 articoli di carattere generale, in tutto 41 articoli). La norma non pensa mai alle eventuali, ma possibili, responsabilità del lavoratore ma ad arginare prevaricazioni e ad impedire prepotenze del datore di lavoro ed evita il benché minimo aggancio agli artt. 2043 (Risarcimento per fatto illecito) e 2104 (Diligenza del prestatore di lavoro) c.c. Come è dimostrato, se non fosse cronaca quotidiana e vi fosse bisogno di provare l’assunto, dal provvedimento dei giudici per quei dipendenti dell’aeroporto di Milano Malpensa pescati a ripulire le valigie dei passeggeri del loro contenuto, che l’azienda aveva licenziato in tronco ritenendo ingiustificabile la prosecuzione del rapporto di lavoro o per quella barista la quale, tempo fa, alleggeriva regolarmente la cassa di 15.000 lire al giorno di modo che, accertati i furti, ne era stato disposto immediatamente l’allontanamento per non consentire la reiterazione del danno: riassunzione, con tante scuse, per tutti e per un semplice difetto probatorio atteso che i furti non potevano essere scoperti con l’uso di telecamere e che, quindi, giuridicamente, le registrazioni video dovevano considerarsi inesistenti perché irrispettose dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori che vieta la sorveglianza con mezzi tecnologici. Lo Statuto, incidentalmente, è applicato con rigoroso puntiglio agli imprenditori italiani e, forse, soltanto a loro. A Torino la dirigenza della Thyssen fu fucilata nel 2011 (oggi lo stabilimento non esiste più) perché mandò a morire 7 poveri operai e l’amministratore delegato venne condannato a 16 anni e mezzo per omicidio volontario nella forma del dolo eventuale. Il secondo grado, ridimensionando l’impostazione del procuratore Raffaele Guariniello (imperante l’allora ministro del Lavoro Cesare Damiano, già sindacalista Fiom – Cgil e ministro del lavoro, parlamentare dell’Ulivo ed ora del PD), ebbe a ridefinire l’imputazione per scartare il problematico omicidio volontario convertito in omicidio colposo con colpa cosciente che riduce le pene, con ulteriore correzione e rinvio alla corte d’assise d’appello di Torino. A Prato – dove l’industria tessile cittadina, in passato florida ed ora rovinata da una concorrenza sleale che sfrutta in capannoni – lager una manodopera a bassissimo costo, priva dell’assistenza del sindacato e soggetta a turni massacranti, in un contesto igienico-sanitario fatiscente – si è verificato  un rogo devastante che ha causato la morte, nel dicembre 2014, di 7 cittadini cinesi senza voce. Chissà se, in uno scenario del tutto simile all’incidente di Torino (scarsa preoccupazione per la sicurezza), i giudici di Prato vorranno ripetere lo stesso tortuoso cammino dei colleghi torinesi o se una qualche sorta di buonismo pro-extracomunitari sarà capace di diluire le pene fino magari ad annacquarle cercando finanche di rivoltarle sugli italiani. Risulta infatti, da anticipazioni giornalistiche, che nel processo in corso sarebbero coinvolti, oltre ai tre gestori cinesi, anche i due proprietari italiani del fondo, accusati di omicidio colposo plurimo sull’assunto che dei testimoni li avrebbero scorti all’interno del capannone per cui dovevano dunque conoscere l’esistenza di dormitori abusivi. Perché i sindacati nostrani in Toscana hanno dato prova di saper chiudere gli occhi. Si invocano, per ogni accadimento, leggi nuove. Francamente, più che di nuove norme ci sarebbe bisogno di un diverso atteggiamento da parte del mondo sindacale o della giustizia e più in generale della società umana, cui non soccorre inventiva e originalità, settarismo e partigianeria per una diversa attenzione alla verità, all’obiettività e all’imparzialità, all’onesta colleganza con i principi di civile convivenza della tradizione perché se, contrariamente a ciò, si diffonderanno e si propagheranno ulteriori spazi di insensatezza e di sconsiderata opposizione al buon senso, finiremo con il dover fronteggiare tristi conseguenze che ci riporteranno, giusto per denunciare la carenza etica del relativismo culturale di cui si era fatto interprete Claude Lévi-Strauss, ad una storia unanimemente considerata mostruosa, abominevole e delinquenziale come il nazismo in quanto anch’esso, alla fin fine, potrebbe essere perfettamente giustificabile sulla scorta dei criteri di valore della società tedesca del suo tempo. Giorgio Agamben (Homo sacer, Einaudi, Torino 2005) valutava: … la consumazione della legge e il suo diventare indiscernibile dalla vita che dovrebbe regolare. A un nichilismo imperfetto, che lascia sussistere indefinitamente il nulla nella forma di una vigenza senza significato. Il non reprimere un furto perché il mezzo usato per rilevarlo non è legittimo potrà magari soddisfare la lettera della legge ma è incomprensibile logicamente e deleterio per la stessa rappresentazione dello Stato e della Giustizia: il nulla nella forma di una vigenza senza significato. È quella forma di nichilismo mitigato e borghese che è il relativismo di cui ha parlato Francesco D’Agostino (Lezioni di Teoria del Diritto, Giappichelli, Torino 2006) e che, secondo Ian Charles Jarvie (Rationalism and relativismThe British journal of sociology, 1983, XXXIV), lascia, dietro al relativismo, intravedere il nichilismo. In questo quadro molto problematico, il verdetto del tribunale di Milano – che imponeva ad un ristoratore di pagare 14.200 euro di risarcimento ad un lavapiatti egiziano – assunto con contratto a termine, sei mesi da luglio a dicembre, e licenziato dopo il solo primo giorno di prova – e gli ingiungeva altresì l’obbligo di riassumerlo a tempo indeterminato (Cristiano Gatti, Il Giornale, 16 novembre 2011) è emblematico di un irrefrenabile odio per l’impresa. Non si può non avvertire che con tali dinamiche demenziali, purtroppo non infrequenti nel mercato del lavoro, sia assolutamente impossibile fare impresa, contrastare la disoccupazione e fornire un contributo alla ripresa dell’economia. Osservando l’irrigidimento della società romana della deca­denza, Luigi Einaudi aveva dedotto la principale causa della rovi­na dello Stato e constatato come, essendo ormai uno zombi, Roma non fosse in grado di combattere e ai barbari non costasse alcuna fatica il soggiogare quel poco che restava di Roma. È una semplice battuta: il matrimo­nio è dissolubile grazie al divorzio; il rapporto di lavo­ro, invece, è eterno, non si scioglie senza la benedizione di un tribuna­le, quasi sempre incline a maledire i padroni ma contiene un sottofondo di verità.

Manifesta anche un inequivocabile sbilanciamento a sinistra della politica. L’on. Mario Cevolotto, esponente del partito della democrazia del lavoro, nella seduta del 22 marzo del 1947 dell’Assemblea Costituente, aveva suggerito per l’art. 1 Cost. la dizione L’Italia è una repubblica democratica. Palmiro Togliatti, capo del Partito comunista italiano, aveva senza indugio obiettato che l’Italia è una repubblica democratica di lavoratori. Amintore Fanfani, secondo il suo essere profondamente democristiano, aveva infine scovato la formula, poi adottata, L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro ad escludere che la repubblica potesse ergersi sui privilegi, sulla nobiltà o sulla fatica degli altri e che, in pratica, si traduceva in un nonsenso (se sono disoccupato lo Stato dovrebbe procurarmi un lavoro. Ma chi nello Stato? Forse il Presidente della Repubblica? Non scherziamo) manifestando tutta l’impotenza di un precetto astratto, dogmatico ed inconferente. Predilezione di tutta la classe politica nostrana, fortemente sostenuta senza distinzione di colore o di orientamento. In Italia c’è in ogni momento una crociata in corso: si dichiara guerra alla corruzione, si intende combattere il triste fenomeno della disoccupazione, si riconosce che è inammissibile non saldare i debiti contratti dallo Stato nei confronti delle imprese, ci si indigna per le spese pazze di certa parte della Pubblica Amministrazione, si lamentano il flop della spending review, le mancate soluzioni per ridurre i costi della Sanità, i mille sprechi delle Società partecipate, la revisione per i tagli delle Provincie e delle Regioni. Sono tutti piagnistei intrisi di farisaica ipocrisia perché tutto continua immancabilmente come prima. Se lo si volesse davvero basterebbe il solo Partito democratico che, avendo raccolto il 40,81% dei voti alle ultime elezioni europee del 2014, potrebbe porre un categorico aut-aut agli altri partiti obbligandoli a mostrarsi e a giocarsi la faccia. Unito al Movimento 5 stelle di Beppe Grillo, con il suo 21,16% di preferenze, raggiungendo il 61,97%, potrebbe disporre di una maggioranza larga a sufficienza per fissare un cammino decisamente virtuoso. Basta sprechi e inefficienze, si volta pagina. Evidentemente un deciso cambio di passo non lo si vuole ed è inutile perciò chiedersi perché si stia sempre peggio. Da noi non si fa altro che parlare di quanto la pressione fiscale sia eccessiva, di come il costo del lavoro sia oberato da un cuneo fiscale insopportabile, di quanti vincoli contribuiscano ad alimentare la crescente disoccupazione, di come il debito pubblico continui a peggiorare, di quanto l’accesso al credito dovrebbe essere facilitato per far ripartire gli investimenti, della necessità di adeguate infrastrutture e di molte altre cose, per carità tutte importantissime, ma che nella maggior parte dei casi restano vuoti slogan perché, nel concreto, nessuno fa niente per risolvere qualcosa. C’è, soprattutto, un totale disinteresse per chi crea occasioni di lavoro e produce ricchezza. Matteo Renzi ha nel merito un comportamento che è discontinuo. Sembrerebbe voler abbandonare la tradizionale, presunta superiorità morale ed intellettuale del suo partito e rottamare la cultura comunista e cattocomunista, anche se l’iniziativa provoca le tante avversioni contro di lui che serpeggiano fra i sostenitori della sua parte politica, ma, nella sostanza, il suo programma resta influenzato dal passato per un’impostazione di vecchio collettivismo sempre ancorato ad antecedenti trapassati e decisamente superati. Ha portato in politica la teoria dell’annuncio che a parole spazza via ogni problema. Ad evidentiam, rimane nelle poche posizioni da lui assunte in concreto, una propensione per quell’economia statalista che ha caratterizzato e favorito in tutti questi anni l’iniziativa pubblica malgrado il fatto che, al momento, essa sia sostanzialmente sparita ed abbia fatto sparire, insieme, la Prima Repubblica che su di essa aveva scommesso la propria sopravvivenza. Prova ne sia la dichiarazione che lo stesso premier Matteo Renzi, in prima persona, ha recentemente reso in un’intervista a Repubblica: A Taranto (il riferimento è alla tragica situazione dell’Ilva, n.d.r.)  stiamo valutando se intervenire sull’Ilva con un soggetto pubblico: rimettere in sesto quell’azienda per due o tre anni, difendere l’occupazione, tutelare l’ambiente e poi rilanciarla sul mercato. Egli ritiene che un’impresa di produzione dell’acciaio debba preferibilmente essere gestita da privati ma ha anche aggiunto: non tutto ciò che è pubblico va escluso. Prima di fine anno il leader sindacale della Fim – Cisl Marco Bentivogli aveva spronato il governo Renzi a imparare dagli errori commessi nelle statalizzazioni del passato per evitare il rischio che Taranto si debba trasformare in un altro carrozzone pubblico e alle sue perplessità aggiungeva un carico di tutto rispetto chiarendo come financo il Jobs act potrebbe apparire vano: In dieci anni ci sono state sette riforme del mercato del lavoro che non hanno aumentato l’occupazione totale. Le riforme non avrebbero potuto, perché, come più volte ricordato, il lavoro si forma solo in azienda e politici, sindacalisti e giudici possono semmai intervenire a distruggerlo, mai sicuramente a crearlo. Non so se sono io a non capire o se i proclami del governo siano fatti apposta per non essere decifrati creando incertezza là dove occorrerebbe uno stringente pragmatismo. Alcune fonti ritengono che l’intervento pubblico, forse, si limiti ad un contributo della Cassa Depositi & Prestiti e, al proposito, si è accennato ad un prestito di 1 miliardo di euro. Si può unicamente sperare che basti e, se così dovesse essere, si escluderebbe una vera gestione statale cestinando le aspettative degli statalisti. Non è che dal fatto di finire in mano pubblica (mi pare fosse stato Pietro Nenni a dire: non hanno capito niente, non hanno dimenticato niente, non hanno imparato niente), si possa sperare per l’azienda gran che quanto a unicità di intendimenti e di orientamento. Può essere che con la nomina di un nuovo incaricato questi possa disporre di poteri più ampi di quelli dell’attuale commissario straordinario, dott. Piero Gnudi, ma – comunque si possa immaginare la sua presenza, essa rimarrà pur sempre condizionata dall’ambiente che lo circonda, essendo del tutto astratta ed irreale una sua partecipazione alla gestione con la grinta e l’indipendenza proprie del vero capitano di industria, tanto più necessaria quanto più grave è lo stato in cui versa l’azienda – anche lui resterà accerchiato dai mille problemi illustrati dalla relazione del dott. Gnudi fatta per fotografare il periodo compreso tra l’1 giugno ed il 31 agosto 2014. I sequestri giudiziari tra il novembre 2012 ed il maggio 2013 hanno determinato calo di fatturato e ritardi nelle consegne. Quello del settembre 2013 contro i cespiti delle controllate dirette e indirette che alla società forniscono beni e servizi insieme ai problemi tecnici degli impianti per via della loro insufficiente manutenzione per la precarietà delle condizioni operative della fabbrica e l’interruzione parziale del funzionamento della centrale elettrica ha comportato una forzata riduzione della produzione per almeno un paio mesi. Come dire: una gestione disperata ed assolutamente incerta nella quale la proprietà non ha voce in capitolo dipendendo le sue possibilità di manovra dalle decisioni della magistratura, dall’esito del processo in corso per disastro ambientale, dall’affannosa rincorsa al reperimento di risorse finanziarie peraltro indispensabili a garantire il mantenimento della continuità gestionale ed il controllo del patrimonio. Una totale incertezza di gestione perché minata da incontrollabili interferenze e sollecitazioni esterne utili a tutto ma non ad assicurare tranquillità di gestione all’azienda, frutto di una esasperante incertezza da pressioni politiche quanto mai disassortite fra loro. La Fiom si augura la nazionalizzazione del comparto. La Uil propende per una soluzione pubblica di emergenza. Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, per bocca del ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, aveva dichiarato di volersi preoccupare della salute della popolazione di Taranto e, quindi, di non pensare ad una riedizione dell’Italsider ma, semplicemente, al rilancio dell’azienda che resta strategica per l’Italia. I Verdi auspicano una riconversione ecologica radicale, sul modello di Bilbao, la principale città basca, che da plumbea città industriale di altiforni si è trasformata in un’efficiente città moderna distaccandosi dalla siderurgia e dall’industria navale di un tempo le quali, prive di opzioni per una valida diversificazione, avevano compromesso il futuro della città. Nessuno pensa davvero all’azienda. Fra tutte queste diverse istanze alcune meritano una nota particolare. IRI è l’acronimo di Istituto per la Ricostruzione Industriale e indica l’ente pubblico creato per iniziativa di Benito Mussolini nel lontano 1933 principalmente per assumere le partecipazioni delle banche scosse dalla crisi mondiale del 1929, finanziandole per evitare un fallimento che avrebbe significato non esclusivamente l’annientamento degli Istituti bancari ma, altresì, delle imprese da loro possedute o sovvenzionate. In altri termini l’IRI, e quindi lo Stato, nel 1933 diventa titolare di oltre il 20% dell’intero capitale azionario nazionale e di fatto il maggiore imprenditore italiano. Nel 1934 l’IRI acquisisce l’Ilva e le altre imprese possedute dalla Banca Commerciale Italiana di modo che, praticamente, l’intera siderurgia italiana a ciclo integrale (altiforni di Portoferraio, Piombino, Bagnoli e Cornigliano, attraverso l’IRI, finisce con l’essere posseduta dallo Stato. Tecnicamente il controllo societario, tre anni dopo, va alla finanziaria Finsider. Nel 1949 la Finsider costituisce a Roma la Nuova Italsider, Società Siderurgica Commerciale, e nel 1961, dalla fusione dell’Ilva con la Cornigliano s.p.a. nasce la Italsider Alti Forni e Acciaierie Riunite Ilva e Cornigliano. L’Ilva, che nel 1995 era una fabbrica in pieno disfacimento ed un vero e proprio rottame, viene finalmente privatizzata togliendola ad una disastrosa gestione pubblica e passa al gruppo Riva: una esperienza di 34 anni in mano pubblica, dal 1961 al 1995, da dismettere poiché senza prospettive dato che, a partire dagli anni Ottanta, essa si era trovata in grave crisi (ad esempio: 1992, fatturato di 75.912 miliardi di lire e perdite di 5.182 miliardi di lire, pari ad oltre il 6% del volume d’affari). In alternativa, può essere che l’ILVA torni effettivamente ad essere pubblica (come era stata negli anni Venti e sino agli anni Ottanta). Renzi ha assicurato che, nell’ipotesi, l’investimento pubblico durerebbe da un minimo di 18 a un massimo di 36 mesi. All’ILVA in amministrazione straordinaria rimarrebbero le cause pendenti e i debiti, esperienza di illuminata professionalità economica che non farà sparire il marcio che si porta appresso. Nella newco confluirebbe l’attività produttiva con un affitto triennale di ramo d’azienda per proseguire nella produzione su impianti in gran parte sottoposti a sequestro e attuare il risanamento ambientale (fonte: Huffington Post, 24 dicembre 2014). Di sicuro, ci saranno tempi tecnici da rispettare ma, comunque, intanto il tempo scorre inesorabile senza che si veda un qualche costrutto e il rilievo è di sicuro negativo. Perché, nel frattempo, essendo scaduti i contratti di solidarietà, l’Ilva sta per chiedere la cassa integrazione a rotazione per circa 5 mila operai, la cui sorte è incerta oltre che precaria. Come resta incerto e precario il futuro del maggior complesso industriale per la lavorazione dell’acciaio in Europa. Ciononostante, l’azienda resterà strategica per l’Italia! Mah! Balza all’occhio ad ogni buon conto la differenza fra programmi preparati a tavolino e programmi studiati e vissuti in fabbrica.

Il leader della Fiom, Maurizio Landini, si è felicitato dell’intenzione del governo Renzi di trasferire una parte del carico fiscale alla rendita finanziaria alleggerendo le imprese industriali e ha dichiarato a Paolo Griseri (Repubblica.it, 15 marzo 2014): Queste sono le scelte che vanno nella direzione giusta senza avvedersi del fatto che la tassazione delle rendite finanziarie come voluta da Matteo Renzi e limitata alle imprese private, alleggerisce, sì, le imprese ma degli utili riducendo la loro redditività e, di conseguenza, portandole verso una inevitabile dissoluzione. Il Pil non cresce, scrive Nicola Porro (Il Giornale, 7 agosto 2014). Ciò è imputabile a diverse ragioni e il dott. Porro ne cita alcune. Esternalizzare le masse artistiche, pratica usata in diversi paesi europei, significa produrre alla gestione dell’Opera di Roma risparmi per 3,4 milioni di euro. Ma la decisione del suo CdA è stata osteggiata dai sindacati che prima hanno imposto lo stop alle rappresentazioni e poi hanno obbligato il Teatro al ritiro del licenziamento collettivo degli artisti prevedendo a compensazione un aumento degli spettacoli fino al 40% in due anni e il taglio ai salari accessori di tutti i 460 dipendenti (RAINEWS, 24 novembre 2014). Ai commercianti il Comune di Roma ha intimato: i vostri tavolini in piazza Navona sono illegali, e nel frattempo si dà spazio a bivacchi di evasori totali con borsette di marca ma false (Tempi, 7 agosto 2014). Montagne di bagagli accatastati e abbandonati nell’aeroporto di Fiumicino per lo sciopero bianco dei lavoratori Alitalia (Il Fatto Quotidiano, 5 agosto 2014) non si può dire che aiutino il debutto della nuova compagnia aerea Alitalia – Etihad. Ancora: Non trivelliamo l’Adriatico dove c’è un mare di petrolio e 15 miliardi di investimenti privati da fare, perché si rovinerebbe il panorama (Tempi, 7 agosto 2014). Di fronte ad un’impresa che marcia a dovere e che, addirittura, vuole incrementare l’attività chiedendo di lavorare 7 giorni su 7 per un ottimale impiego degli impianti, che propone al personale 4 giorni di lavoro e 2 di riposo, con le maggiorazioni previste dal contratto collettivo per sabato, domenica e notturni e un gettone di 75 euro, per chi lavora tutte le 32 ore previste, più l’impegno alla stabilizzazione dei lavoratori precari, che trova i sindacati consenzienti ma si lascia stregare dal suggerimento sindacale, prima della firma dell’accordo, di sottoporre la proposta al voto dei lavoratori. Risultato: 433 votanti, 158 sì e 262 no. Accordo congelato, niente aumento produttivo né retributivo; col rischio che i committenti si rivolgano altrove … Succede alla Lascor di Sesto Calende, un’azienda del gruppo Swatch che produce casse e bracciali per orologi (Laura Verlicchi, Il Giornale, 18 gennaio 2012). Come si vede, non è l’Ilva l’unica fonte di avversione all’imprese. Finché il protagonismo della giustizia, con i suoi tempi biblici a corredo, terrà lontani gli investitori dal mercato e sin quando il sindacato o i lavoratori rimarranno succubi di una deriva ideologica e manterranno una condotta di ostile contrapposizione all’impresa, qualsiasi tentativo di rianimare il Paese, di infondervi fiducia e di stimolarne l’intraprendenza, sarà inevitabilmente frustrata e condannata a forzata inazione. Per quanto collaborativo, in queste condizioni qualsiasi intervento del Governo per risollevare l’economia avrà l’effetto di un brodino quando la cura necessaria sarebbe piuttosto da cavallo. Non dimentichiamo che la condivisione fra politica economica e parti sindacali, eufemisticamente chiamata concertazione, ad opera del governo, degli esponenti politici e di larga parte dell’opinione pubblica negli ultimi vent’anni ha prodotto più tasse, più spesa pubblica e meno sviluppo. Idealmente, la mente va ai recenti nuovi assunti dello stabilimento Fiat Chrysler Automobiles di Melfi che rappresentano ad un tempo una cocente sconfitta di Maurizio Landini, leader della Fiom, e l’inutilità di un sindacato che si colloca fuori dall’epoca in cui vive (il vecchio leader della Uil, Luigi Angeletti, aveva detto una volta con malcelata ironia: La Fiom ha smesso di fare sindacato, si è tramutata in un collegio di avvocati).

Senza tralasciare di specificare che FIAT è stata condannata dal tribunale di Roma alla riassunzione di 145 dipendenti tesserati FIOM perché al giudice era parso discriminatorio il comportamento dell’azienda, si possono ripercorre i commenti alle vicende giudiziarie in quel di Roma. Scontati ma durissimi gli apprezzamenti di Nichi Vendola, presidente di SEL (Sinistra, ecologia e libertà) contro la Fiat di Sergio Marchionne: Quella di Marchionne è una sfida arrogante e violenta alle più elementari regole della convivenza democratica, un gesto di disprezzo verso gli operai e verso la Costituzione, l’ennesima prova di uno stile padronale ed estremista inaccettabile in un momento di così grande sofferenza del mondo del lavoroE’ un modo banditesco di gestire le relazioni industriali in Italia, pressa con grande enfasi Antonio Di Pietro, presidente dell’IdV. Oggi arriva l’ennesimo atto di arroganza della Fiat nei confronti dei lavoratori, delle leggi italiane e della Costituzione (Repubblica, 1 luglio 2012). Non è da meno Rinaldo Gianola che su L’Unità, del 22 giugno 2012 commenta: Non serve a nulla licenziare tre operai a Melfi, un impiegato a Mirafiori e cancellare stupidamente i lavoratori iscritti alla Fiom a Pomigliano, come a voler penalizzare, sanzionare i dissidenti in fabbrica. É una strategia miope, insensata, che rende la Fiom un sindacato gigantesco, più rilevante del numero dei suoi iscritti e della capacità di creare consenso. Dopo due anni di scontro con la Fiom, la Fiat ha ottenuto il risultato di fare figuracce meschine nelle aule di giustizia e di aver reso Maurizio Landini popolare come Lech Walesa. Ora il Lingotto ricorrerà contro la sentenza di Pomigliano. E poi? Si può gestire di un’impresa contro un sindacato con un secolo di vita e che vivrà anche quando Marchionne se ne sarà andato a godersi le stock options, contro una parte dell’opinione pubblica, entrando e uscendo dai tribunali? La domanda del giornalista è però talmente ampollosa e retorica da render necessario di riproporla nella veste di un più modesto ma oggettivo quesito: si possono gestire le imprese costretti ad ogni piè sospinto in un’aula di tribunale? Singolare e pilatesca infine la testimonianza di Corrado Passera quand’era ministro dello Sviluppo Economico: Non conosco le motivazioni della sentenza ma é qualcosa di cui tener conto (Corriere della Sera, 21 giugno 2012). Immediatamente a seguire la decisione della Fiat Chrysler Automobiles di abbandonare l’Italia – pur mantenendovi un apprezzabile impegno – Carlo De Benedetti, tessera numero uno del Partito democratico, ha sentenziato: La Fiat è ora apolide: non è statunitense, non è più italiana, non è olandese e nemmeno britannica. Ipse dixit l’ingegnere italiano trapiantato in Svizzera con cittadinanza elvetica. Ovverosia: il guaio di non essere più italiani, il bue che dà del cornuto all’asino. Uno spregiudicato moralismo, un’ipocrisia che sa di doppiezza e di insincerità ammorba l’Italia. Gli agenti della polizia locale di tutta Italia sciopereranno il prossimo 12 febbraio.  La decisione è stata presa dal sindacato più rappresentativo della categoria che, stando al suo presidente, Luigi Marucci, si lamenta per l’infamante valanga di fango contro il Corpo della Polizia Locale di Roma Capitale lanciata dalle istituzioni, Comune e Governo scatenata per il comportamento dei vigili romani a Capodanno e dichiara: l’iniziativa nasce dalle polemiche sui vigili assenti a Roma a Capodanno, ma si estende a tutta l’Italia perché i problemi che riguardano le polizie locali sono tanti e devono investire il Governo (Sky TG24HD, 16 gennaio 2015). Morale: lo sciopero è di rivendicazione di un’offesa che sta nell’aver giudicato per quello che era una falsa epidemia che, in quanto malattia, poteva non far perdere la relativa retribuzione. Diversamente discutendo, verrebbe da chiedersi se non sia il caso di rivedere i criteri di assunzione del personale allo scopo di assicurarsi collaboratori efficienti, o quanto meno, sani. Di sana e robusta costituzione, come si diceva una volta.

Esplicativa la sintesi offerta da Ernesto Preatoni (Libero, 7 febbraio 2015): 15.000 fallimenti nei primi nove mesi del 2014, 3.000 in più che nel corrispondente periodo del 2013 (il che allarga la forbice fra imprese attive, in continuo calo, e procedure concorsuali in aumento del 20%), sofferenze bancarie a novembre 2014 pari a 181 miliardi (+ 21,1 per cento su novembre 2013) e pari al 9,3 per cento del totale degli impieghidisoccupazione che ormai sfiora la soglia dei sette milioni di individui includendovi anche i 3,6 milioni di persone che non cercano più un lavoro perché non hanno più speranze. Confcommercio a dicembre 2014 segnala una nuova contrazione dei consumi. Il Fondo Monetario Internazionale rivede al ribasso le prospettive dell’economia mondiale per il 2015. Appare lecita la conclusiva domanda del giornalista che per le sue riflessioni prende lo spunto dalle previsioni governative di crescita dello 0,6%: possibile che in un quadro tendenzialmente sconfortante solo il Made in Italy debba brillare?

© Carlo Callioni 2014