Mi è capitato di osservare come molti ferventi patrocinatori del cristianesimo si abbandonino a troppe stravaganti utopie e a superflue chiacchiere finendo con l’obnubilare il più genuino messaggio cristiano e deviarlo da autentici precetti religiosi per impelagarsi in visioni sociologiche e politiche di assai dubbia portata. Vale qui considerarne una conferma. È apparso sul Corriere della Sera di oggi un articolo a firma di Marco Gasperetti (L’anatema del vescovo di Livorno – Case sfitte, un vero peccato) nel quale il giornalista riporta un parere espresso in pubblico da Simone Giusti nella sua qualità di vescovo di Livorno: La proprietà privata e quella pubblica devono essere a disposizione dei cittadini. Il porporato, a detta dell’articolista, aggiunge che la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto, come assoluto e intoccabile, il diritto alla proprietà privata. Ha sottolineato il vescovo: Ma subordinato al diritto dell’uso comune e alla destinazione universale dei beni.
Il concetto è di ardua determinazione giuridica. Il codice civile italiano ammette che il verificarsi di un accadimento futuro ed incerto possa condizionare l’efficacia di un negozio giuridico o di una sua clausola (condizione sospensiva) oppure la cessazione dei suoi effetti (condizione risolutiva). Se la condizione dipende dalla volontà di una delle parti essa è detta condizione potestativa. L’art. 1355 c.c. dichiara la nullità un’obbligazione sottoposta a condizione sospensiva meramente potestativa perché è lasciata all’arbitrio di una delle parti e dell’altra manca la volontà, un elemento essenziale del negozio giuridico. Non prevede, né può prevedere, che la validità di un negozio giuridico possa dipendere da soggetti terzi.
Si tratterebbe, nel caso di specie proposto dal presule, di un qualsiasi terzo che potrebbe manifestare le proprie intenzioni in qualsiasi momento. In pratica, un diritto di proprietà subordinato al diritto dell’uso comune e alla destinazione universale dei beni sarebbe un non diritto.
Del diritto condizionato alla proprietà privata.
L’Enciclica Populorum Progressio Lo sviluppo dei popoli del 26 marzo 1967 (§ 3. L’opera da compiere, La destinazione universale dei beni, punto 22) aveva in effetti già usato un argomento simile a quello del vescovo Giusti: Se la terra è fatta per fornire a ciascuno i mezzi della sua sussistenza e gli strumenti del suo progresso, ogni uomo ha dunque il diritto di trovarvi ciò che gli è necessario. Il recente concilio l’ha ricordato: ‘Dio ha destinato la terra e tutto ciò che contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, dimodoché i beni della creazione devono equamente affluire nelle mani di tutti, secondo la regola della giustizia, ch’è inseparabile dalla carità’. Tutti gli altri diritti, di qualunque genere, ivi compresi quelli della proprietà e del libero commercio, sono subordinati ad essa: non devono quindi intralciarne, bensì, al contrario, facilitarne la realizzazione, ed è un dovere sociale grave e urgente restituirli alla loro finalità originaria. Ribadendo poco più oltre (§ 3. La proprietà, punto 23) che la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario. In una parola, ‘il diritto di proprietà non deve mai esercitarsi a detrimento dell’utilità comune, secondo la dottrina tradizionale dei padri della chiesa e dei grandi teologi‘. Ove intervenga un conflitto ‘tra diritti privati acquisiti ed esigenze comunitarie primordiali‘, spetta ai poteri pubblici ‘adoperarsi a risolverlo, con l’attiva partecipazione delle persone e dei gruppi sociali‘. Papa Paolo VI così completava un discorso che timidamente aveva già anticipato con la promulgazione avvenuta l’8 dicembre 1965 della costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo titolata Gaudium et spes. Nel § 69 di questo documento (I beni della terra e loro destinazione a tutti gli uomini) Paolo VI segnalava come Colui che si trova in estrema necessità, ha diritto di procurarsi il necessario dalle ricchezze altrui, quasi a preavvisare, dandosi il caso di estrema necessità la liceità di azioni di pilferaggio. Sarebbe come dire, oltre tutto, che il fine giustifica i mezzi. Strano discorso in bocca agli uomini di Chiesa che, mi pare, sempre hanno negato una tale eventualità.
Delle ricchezze altrui: contegni leciti e condotte etiche.
Ho l’impressione che procurarsi il necessario dalle ricchezze altrui non configuri proprio l’idea che si dovrebbe avere quando si intende assumere un contegno lecito. Ho seri dubbi che la cosa sia anche in grado di soddisfare un’obbligazione morale. Voglio dire che si dia l’eventualità che obblighi legali ed obblighi morali viaggino per strade diverse e non in parallelo, almeno se la legge è espressione di genuina umanità e la morale non viene piegata machiavellicamente a fini meno che lodevoli. Che, poi, quanto asserito dalla citata Enciclica (il diritto di proprietà non deve mai esercitarsi a detrimento dell’utilità comune, secondo la dottrina tradizionale dei padri della chiesa e dei grandi teologi) e ribadita dal vescovo livornese (la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto, come assoluto e intoccabile, il diritto alla proprietà privata) corrisponda al vero è assai discutibile. Papa Leone XIII nell’Enciclica Rerum novarum (parte prima: il socialismo, falso rimedio) proclama – è il caso di dire, papale papale – che i socialisti, attizzando nei poveri l’odio ai ricchi, pretendono si debba abolire la proprietà, e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per mezzo del municipio e dello stato e che la loro pretesa è ingiusta per molti motivi, giacché manomette i diritti dei legittimi proprietari, altera le competenze degli uffici dello Stato, e scompiglia tutto l’ordine sociale. Se l’uomo lavora è per procurarsi il necessario alla vita: e però con il suo lavoro acquista un vero e perfetto diritto, non solo di esigere, ma d’investire come vuole, la dovuta mercede. Leone XIII non si fa mancare nemmeno il suggello della legge divina, la quale vieta strettissimamente perfino il desiderio della roba altrui: Non desiderare la moglie del prossimo tuo: non la casa, non il podere, non la serva, non il bue, non l’asino, non alcuna cosa di tutte quelle che a lui appartengono. Infine, solennemente, dichiara nel capitolo dichiara la proprietà … è diritto di natura.
L’argomento è comunque affascinante: la giustizia, la carità, l’utilità comune, le ricchezze altrui. Da sempre l’uomo ha cercato di definire una giustizia moralmente giusta e la sua ricerca del bene mostra quanto possa rivelarsi tormentata la traduzione di principi etici di manifesto valore e di generale apprezzamento in comportamenti coerentemente privi di contraddizioni logiche. Un’avvincente punto di vista al riguardo è raccolto in un volume recentemente pubblicato da Enrico Zanelli, professore emerito dell’Università di Genova dove per oltre 40 anni ha insegnato economia e diritto commerciale presso la locale Facoltà di Giurisprudenza. Nel testo è illustrato e chiosato uno studio della Harvard University che lo pubblica in Harvard Law Review. La conclusione dell’indagine é inequivocabile: nessuno al mondo può godere del superfluo fino a che qualcun altro non abbia il necessario per la sopravvivenza (Enrico Zanelli, Diritto, economia e forse giustizia. Da Pindaro a Amartya Sen. Lettura facoltativa in quattro lezioni, Edizioni Scientifiche Italiane s.p.a., 2010). Sarebbe assurdo non optare in linea di principio per garantire prima la sopravvivenza per tutti e solo dopo il superfluo per chi se lo può eventualmente permettere. Dall’assunto deriva una non secondaria riflessione. La stessa Harvard University o la Harvard Law Review, dovendosi ammettere l’esistenza a questo mondo di un insieme quasi infinito di persone prive della benché minima opportunità di sopravvivere, non dovrebbero forse includersi nella categoria del superfluo? È fuor di dubbio che la Chiesa cattolica sia sempre corsa ad aiutare i bisognosi con una disponibilità di uomini, un’ampiezza di interventi ed un’entità di risorse enormi. Tuttavia, il Vaticano ha potuto accumulare – dal tempo dell’imperatore Costantino sino ai nostri giorni – un patrimonio di inestimabile valore che non ha mai subito arresti ed è costantemente cresciuto con gli anni. Per Papa Paolo VI e per il vescovo Simone Giusti tutto ciò non starebbe a pieno titolo nell’ambito dell’inessenziale? O, come puntualizza il prof. Enrico Zanelli, ci si trova di fronte manifestamente ed inconcludentemente ad un moralismo utopico che danneggia soprattutto la Chiesa?
© Carlo Callioni 2012