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Carlo Martello

Un blog per ospitare le mie opinioni su politica, economia, storia, e chi più ne ha più ne metta

Fabrizio SaccomanniFabrizio Saccomanni

L’intervista del Wall Street Journal a Fabrizio Saccomanni, Ministro dell’Economia e delle Finanze, durante il suo recente viaggio istituzionale negli Stati Uniti è stata riportata da tutti i giornali italiani con discreta oggettività, visti i rispettivi testi largamente concordanti.

 ·       Relativamente alle riforme il Ministro ha dichiarato:

·       L’uscita di Silvio Berlusconi dal Parlamento italiano dovrebbe rendere più facile per il governo spingere per le necessarie riforme economiche (Corriere della Sera, 3 dicembre 2013)

·       L’uscita di Silvio Berlusconi dal Parlamento italiano dovrebbe rendere più facile per il governo spingere per le necessarie riforme economicheLa maggioranza ora è più coesa e più determinata nel portare avanti il programma di governo così che essa potrà operare in una prospettiva di medio termine diversamente da come il governo è stato obbligato a fare sin qui (Il Giornale, 4 dicembre 2013)

·       La decadenza di Silvio Berlusconi e l’uscita di Forza Italia dalla maggioranza di governo faciliterà le riformeOra c’è una maggioranza più coesa e più determinata nel portare avanti il nostro programma in modo che il governo potrà operare con una prospettiva più di medio termine a dispetto di quanto non sia stato obbligato a fare fino ad ora (la Repubblica.it, 4 dicembre 2013)

 ·       in merito invece alle previsioni per il prossimo futuro egli ha detto:

·       L’Italia sta uscendo da una lunga recessione ed è attesa una crescita dell’1% nel 2014Il governo sta mettendo in campo misure per stimolare l’economia (Il Giornale, 4 dicembre 2013)

·       L’Italia sta uscendo da una lunga recessione tanto che ci aspettiamo che l’economia cresca il prossimo anno a un passo moderato dell’1% (la Repubblica.it, 4 dicembre 2013).

Il Corriere della Sera ha evitato di riportare le tesi del Ministro quanto a crescita e recessione. Non è però che abbia scordato la faccenda. In un articolo non firmato del 10 dicembre 2013 scrive: Nei primi 10 mesi del 2013 l’INPS ha ricevuto 1,7 milioni di domande di disoccupazione, con un aumento del 31% rispetto allo stesso periodo del 2012. Più disoccupazione, male. Nello stesso articolo l’INPS rileva un Lieve aumento tendenziale anche per la cassa integrazione, con 110 milioni di ore autorizzate (+1,7%). Più cassa integrazione, ancora male. Di nuovo, il Corriere della Sera del 10 dicembre 2013, in un altro articolo, cita l’ISTAT. Secondo l’Istituto di Statistica la fine della recessione non può ancora essere dichiarata. Infatti, il valore assoluto del PIL, in termini reali, risulta di circa 100 milioni inferiore al valore del trimestre precedente. Il trimestre da giugno a settembre – riferisce il giornale – ha avuto tre giornate lavorative in più del trimestre precedente e una giornata lavorativa in più rispetto al terzo trimestre del 2012. Niente fine recessione, peggio. Giù comunque i consumi. Rispetto al trimestre precedente il quotidiano ricorda che tutti i principali aggregati della domanda interna sono diminuiti, con cali dello 0,2% dei consumi finali nazionali e dello 0,6% degli investimenti fissi lordi. In termini tendenziali, il valore aggiunto è diminuito in tutti i comparti: nell’agricoltura dello 0,7%, nell’industria in senso stretto del 2,8%, nelle costruzioni del 5,5% e nei servizi dello 0,9%. Indici economici in caduta, sempre peggio. Ciononostante, il Ministro del Lavoro Enrico Giovannini, a margine del Forum Italia – Spagna, dichiara con un certo ottimismo: Siamo passati dallo -0,1% allo 0%, quindi vuol dire che nel terzo trimestre abbiamo stabilità. Accontentarsi è una grande virtù ma sullo 0%, più che di stabilità si dovrebbe parlare di immobilità che, se il prossimo futuro non offrirà una qualche novità diversamente positiva, potrà pietosamente accompagnarci usque ad mortem, situazione finale di assoluta stabilità. Isidoro Trovato, sul Corriere della Sera del 10 dicembre 2013, premesso che da 96 mesi il contatore delle imprese italiane gira al contrario, interroga Sergio Silvestrini, segretario generale di CNA, che risponde: dal 2008 a oggi il numero assoluto delle imprese al netto della differenza tra nuove inscrizioni e cancellazioni, si è ridotto di 80 mila unità, una riduzione che equivale alla perdita di oltre 200mila posti di lavoro. Il patrimonio di 80 mila aziende scomparse – insiste il Segretario – è una cifra che tradotta in termini percentuali equivale a dire che negli ultimi cinque anni è scomparso il 5,6% del tessuto produttivo artigiano in attività prima della crisi globale. A fine anno mancheranno all’appello, altre 35 mila imprese artigiane. Nessuno può permettersi di fare finta di nulla. Forse nemmeno il Ministro del Lavoro. Nel 2013 hanno chiuso i battenti 93 aziende al giorno. È un dato allarmante. Il debito pubblico italiano ad oltre 2mila miliardi di euro è una montagna mostruosa. Il suo montante finale, fa notare il quotidiano economico Il Sole-24 Ore del 3 dicembre 2013, è decollato in particolare negli anni ’80 dopo che i tassi di interesse sui titoli di Stato sono schizzati a seguito del divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia (da allora l’istituto di Via Nazionale non è più intervenuto sul mercato primario per raffreddare i tassi di mercato) e la quota di interessi che matura su di esso viene inevitabilmente sottratta alla crescita. Seguita il giornale: il debito va raffrontato al PIL perché le economie hanno grandezze diverse … le prime tre economie dell’Eurozona hanno superato (Italia e Germania) o sono vicinissime (Francia) la soglia dei 2mila miliardi ma producono PIL differenti. Ebbene, dal 2007 al 2013 (stime) il PIL a prezzi costanti (al netto dell’inflazione) è crollato in Italia dell’8,65% mentre nello stesso periodo è aumentato del 4,25% in Germania ed è rimasto stabile (+0,67%) in Francia. Di sicuro, manca la crescita o, in alternativa, mancano misure di eliminazione delle spese che decurtino incisivamente il debito. Ancor prima (23 ottobre 2013), Il Sole-24 Ore osservava: su base annua, il debito italiano segna un incremento cospicuo. Rispetto al secondo trimestre del 2012, nel secondo trimestre del 2013 il debito è salito di 7,7 punti percentuali, l’ottavo principale incremento nell’UE, e a fronte di un aumento medio europeo intorno ai 2 punti percentualiFintanto che il PIL di un Paese cresce meno del tasso di interesse che questo paga sul debito vuol dire che qualcosa non funziona: questa, giusto per concludere, la valutazione di sintesi e non è per niente buona.

Volendo valutare con ragionevole oggettività proponimenti e attuabilità, speranze ed illusioni, alla luce delle dichiarazioni rese da Fabrizio Saccomanni il quale, nella sua qualità di Ministro dell’Economia e delle Finanze, deve ben conoscere la realtà dei fatti, occorre preliminarmente valutare se le sue affermazioni rappresentino semplici tracce di pensiero, meramente soggettive, oppure se esse abbiano un fondamento concreto. Intanto, su di esse è lecito esprimere una riserva di fondo: non servono a rendere più incisivo l’operato del Ministero dell’Economia e delle Finanze, e a far brillare i risultati del lavoro ministeriale che sono essenziali per migliorare l’economia del nostro Paese. Quel che si richiede ad un Ministro, specie se importante, è il raggiungimento di obiettivi. Non di dispensare perle di saggezza o commenti politici. Può parlare, beninteso, se lo vuole, e di quello che vuole – come si usa dire, siamo in un Paese libero e democratico – ma, certo, a nessun Ministro è consentito di sostituire con un discorso o una chiacchierata l’obbligo di procurare soluzioni soddisfacenti. Né può dimenticare che, facendolo, presta il fianco a possibili contraddizioni o si espone a quasi inevitabili contraddittori. Intanto, Fabrizio Saccomanni nel sito ufficiale della Presidenza del Consiglio dei Ministri (fontegoverno.it) è dichiarato membro del Governo Letta in veste di indipendente. È nondimeno difficile supporre che altri politici, ancorché esponenti di partiti avversari, avrebbero potuto comunicare il proprio punto di vista in modo più politicamente determinato. Con maggiore imparzialità si può osservare (fonte: governo.it/Governo/Ministeri/Ministri) che 32 fra ministri, viceministri e sottosegretari (su 60 complessivi) fanno capo o al Partito Democratico (27, 45%) o a Scelta Civica (5, 8,33%) e rappresentano un gruppo che supera il 50% del totale. Senza contare i due di Unione di Centro (3,33%), i due dell’U.d.C. (3,33%), la radicale Emma Bonino (1,67%) e i 10 indipendenti (16,67%, ma, fra di essi, un Fabrizio Saccomanni che si sbilancia con le considerazioni sopra riferite è proprio un indipendente?). Nemmeno i restanti 15 (NCD) pare abbiano un particolare attaccamento a Silvio Berlusconi. Anche supponendolo, così forzando visibilmente la verità che dipinge un ritratto diverso, i numeri descrivono un rapporto di forza di 3 a 1. Né la corrispondenza, di 3 a 1, subisce sconvolgenti mutazioni considerando le consistenze parlamentari attuali. Come sarà mai possibile, allora, immaginare che L’uscita di Silvio Berlusconi dal Parlamento italiano dovrebbe rendere più facile per il governo spingere per le necessarie riforme economiche? Con un rapporto a proprio sfavore di 3 a 1 cosa ha fatto o cosa avrebbe potuto fare Silvio Berlusconi per impedire, intralciare o ritardare le riforme se la maggioranza le avesse davvero volute? Solo per estrometterlo dal Parlamento – cosa che la maggioranza ha davvero voluto – si è marciato a velocità elevata e senza inciampi. Questo ad ogni buon conto è un fatto e non un’opinione. Pazienza. Quasi certamente, Fabrizio Saccomanni voleva dire che è la fuoruscita del gruppo di Alfano dall’alleanza che fa capo a Berlusconi a facilitare il cammino del governo. Realisticamente, questa è un’opinione che può avere diversi significati. Quello più probabile, chissà, è che Alfano & C. siano ritenuti dei voltagabbana e che essi siano capaci comunque di creare minori intralci al governo Letta dando, magari indirettamente, ragione a Matteo Renzi che giudica la presenza di ben 5 ministri del Nuovo Centrodestra (NCD) eccessivi, se non inutili, rispetto alla loro tangibile rappresentatività. Che la maggioranza sia ora più coesa è, quindi, argomento logico conseguente, teso ad evidenziare come gli attuali governativi si trovino uniti dove prima erano probabilmente divisi e aderiscano agli stessi intendimenti quando, prima, manifestavano opinioni in qualche modo divergenti se non proprio contrastanti. Maggioranza più determinata nel portare avanti il programma di governo. Indubbiamente, a parole. Ma nei fatti la coerenza di cui si discute resta un teorema tutto da dimostrare. Di fatto, Silvio Berlusconi è l’ossessione italiana. La sola circostanza che sia fuori dal governo ed ora anche fuori dal Parlamento risulta elemento necessario e sufficiente per ritenere risolti tutti i problemi del nostro Paese. Fosse così semplice! Già si è dimenticato l’auspicio del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione del varo del governo delle larghe intese di Enrico Letta: la sola prospettiva possibile, quella cioè di una larga convergenza tra le forze politiche che possono assicurare al governo la maggioranza in entrambe le camere, se non era un vuoto linguaggio di circostanza. Si sono scordate le larghe intese che con sano realismo non esistono più. Davvero nulla è cambiato nella larga convergenza? Il principio delle larghe intese sembrerebbe restare nominalmente ed indipendentemente dalla radicale modificazione del quadro politico di questi giorni convulsi ancora funzionale al raggiungimento degli obiettivi originari del programma che non erano e non sono comunque una novità di oggi ma il retaggio triste di un passato che non riesce a cambiare passo.

Il prof. Mario Monti scriveva sette anni fa, l’8 ottobre 2006, sul Corriere della Sera, molto prima dunque di diventare senatore a vita o Presidente del Consiglio, queste testuali parole: Il governo non è stato coerente con i suoi programmi per quanto riguarda il mercato e il rapporto tra stato e mercato … Il contenimento del disavanzo è affidato più a maggiori entrate che a minori spese. Sono limitati i provvedimenti di carattere strutturale. L’inefficienza dell’apparato pubblico e la sua pesantezza sull’economia non sembrano avviate a riduzione. La riforma del mercato del lavoro e le liberalizzazioni non hanno sinora trovato soluzione, l’esorbitante debito pubblico che, per contrarsi, implicherebbe indispensabili tagli nelle spese dell’amministrazione pubblica a partire da quelle sicuramente inutili e la riduzione dei costi della politica, è invece in ulteriore espansione, i provvedimenti necessari per avviare l’auspicabile salto di qualità nella condotta governativa che induca un minor carico fiscale perché la promozione della competitività e le riforme strutturali indispensabili siano realizzate per rimuovere i vincoli alla crescita sono fermi al palo. Sia con il prof. Mario Monti che con il governo Letta – Alfano.

Alcuni sintomatici esempi. Quanto al governo Monti, un paio di anni fa fu decisa la fusione nell’INPS dell’INPDAP, nata nel 1994 per gestire la previdenza dei circa 3 milioni di pensionati pubblici. Prima d’allora lo Stato italiano – che aborre e condanna senza alcuna attenuante il falso in bilancio ma lo pratica ed impone agli italiani una previdenza obbligatoria ma non la osserva – non aveva mai versato all’ente di previdenza alcun contributo per il proprio personale. Per bizzarra dimenticanza o ritenendo l’operazione, non senza una parvenza di fondamento, una semplice partita di giro. Fondamento unicamente apparente tuttavia perché, in realtà, né lo Stato né l’INPDAP avevano messo a bilancio un debito effettivo che, con l’andare del tempo, al momento della fusione ammontava ad 8 miliardi di euro. Un buco di bilancio che avrebbe portato un’impresa privata dritta alla bancarotta fraudolenta. A riprova del falso in bilancio, nel 1996 il governo Prodi decise, non già di saldare il proprio debito come sarebbe stato logico fare, ma unicamente di anticipare volta per volta le somme necessarie a pareggiare i conti. La successiva fusione INPS – INPDAP ha messo a nudo lo scellerato marchingegno. Senza addentrarsi, per carità di patria, ad esaminare il triste capitolo dei c.d. esodati che, tramontato il 21 dicembre 2012 il governo Monti con le dimissioni dell’esecutivo, rimane ancora adesso un grattacapo irrisolto. Senza nemmeno commentare più di tanto l’introduzione (1º marzo 2013) della sadica Tobin tax che nella mente del prof. Mario Monti avrebbe dovuto produrre nel 2013 un gettito di un miliardo di euro ma che a fine ottobre non è riuscita a raggranellarne nemmeno 160 milioni così che si creerà un buco di bilancio di circa 800 milioni di euro. Si tratta del noto effetto della curva di Laffer che come ha pregiudicato il futuro delle imbarcazioni nei porti italiani facendole fuggire verso lidi più accoglienti così sta rendendo problematico il gettito del superbollo, dell’IVA e delle accise sulla benzina, dato che non si è pensato né alla possibile riduzione del gettito né alla perdita da parte degli operatori italiani del settore del 30 per cento del loro giro d’affari (a tanto è stimata la diminuzione) a favore di soggetti operanti in quel di Londra. Previsione, questa, persino ovvia tenendo conto del fatto che le transazioni finanziarie si trasferiscono da una piazza all’altra con semplicissime istruzioni al computer. Non è più il tempo degli spalloni che attraversavano la frontiera con, sulle spalle, il carico delle bricolle che la Guardia di Finanza poteva senza grandi sforzi sequestrare. L’idea di trattenere in Italia quei servizi via web che, pur nascendo in Italia, finiscono con l’andare all’estero alla ricerca del fisco meno oppressivo sottraendosi a quella che è comunemente conosciuta come Google tax, o meglio, web tax, perché possano essere sottoposti a tassazione nel nostro Paese è stata recentissimamente proposta dai giovani del nuovo PD uscito dalle primarie che hanno portato Matteo Renzi alla segreteria – sa di vecchio perché si ricollega a quel tempo, ormai superato, degli spalloni al punto che, se dovesse tradursi in norma cogente, troverà notevoli incagli e provocherà grandi disillusioni. Perché i confini nazionali e il concetto stesso di territorialità spariscono di fronte alla tecnologia odierna. Sintomatico, infine, è il decreto legge di riforma che prevedeva la soppressione delle giunte provinciali dal primo gennaio 2013 e la riduzione del numero delle province a statuto ordinario (da 86 a 51) a partire dal 2014. Non se ne è fatto niente. Tutte le province sono vive e vegete. Del riordino delle province delle regioni a statuto speciale il governo aveva promesso di occuparsi in seguito ma il seguito, nei 6 mesi ventilati, non è mai arrivato. La Corte costituzionale infine ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della riforma e così la seccatura è definitivamente sparita dall’orizzonte politico. Non facciamo mai niente ma le istituzioni fanno di tutto per affossare anche quel poco che forse sarebbe potuto proficuamente passare. Relativamente al governo Letta – Alfano il Consiglio dei ministri rivede e modifica il perverso meccanismo dei rimborsi elettorali ed abolisce il finanziamento pubblico ai partiti ma il provvedimento approntato si diluisce in 3 anni. Troppi se ci si attende un effetto positivo d’urgenza sull’economia! Anche per il decreto sul pagamento dei debiti della pubblica amministrazione si prevedono tempi lunghi. Dichiarazioni come quella del Ministro Saccomanni secondo cui il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione aumenta il debito, ma non incide sul disavanzo rimangono sconcertanti anche dopo l’immediata correzione del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco: il pagamento porta l’indebitamento a salire e si tende al 3% di deficit. Presumibilmente è per non ampliare il debito che il brodo viene allungato. Il provvedimento di pagamento dei debiti delle PA è stato varato dal Governo Monti (dimissionario, come si ricordava più sopra, nel dicembre del 2012), approvato dalla Camera il 15 maggio 2013, poi modificato dal Senato il 3 giugno 2013 e quindi riapprovato in via definitiva dalla Camera il 5 giugno 2013. Obiettivo: sbloccare circa 40 miliardi d’euro e ridare liquidità e slancio all’economia entro i prossimi 12 mesi. Exploit: sono occorsi almeno 6 mesi di chiacchiere per arrivare al traguardo e, fra l’altro, limitatamente al saldo di debiti arretrati. Che aurea proporzione! Vale il sacrosanto principio che i debiti vanno pagati al tempo contrattualmente stabilito senza bisogno di alcuna legge. Plausibilmente, è per queste ragioni che il vice Presidente della Commissione UE, l’italiano Antonio Tajani, ricorda che l’Italia è tenuta a rispettare la direttiva UE sul ritardo dei pagamenti alle imprese da parte della pubblica amministrazione. E se non lo farà dovrò avviare una procedura di infrazione. Dei 24 miliardi stanziati in più tranche adempimenti burocratici vari e meccanismi a dir poco contorti pare abbiano consentito il rimborso alle imprese di soli 16 miliardi. Se così fosse, e pare proprio che così sia, 8 miliardi, non sarebbero ancora arrivati a buon fine. Probabilmente non sono neanche partiti. A un anno dall’entrata in vigore della direttiva europea che impegna le pubbliche amministrazioni al saldo dei propri debiti entro 30 giorni (60 in casi straordinari), la posizione dell’Italia – come descritta dal Cerved Group e anticipata dal Sole 24 Ore – sarebbe nel 2013 addirittura in via di peggioramento.

Pressato dalle critiche avanzate dall’Europa alla legge di Stabilità, il Presidente del Consiglio ha un progetto di privatizzazioni e intende specificare i traguardi da conseguire attraverso la spending review. Francesco Giavazzi (Corriere.it, 19 novembre 2013) si è subito premurato di segnalare che non si chiami privatizzazione il trasferimento della proprietà di un’impresa alla Cassa Depositi e Prestiti, una società della quale lo Stato possiede l’80% del capitale. Passare un bene dalla mano destra a quella sinistra o viceversa è un semplice artificio contabile con il quale non si aiuta la crescita e non si riduce l’indebitamento. Osserva il professore, Trasferire la proprietà di un’azienda pubblica dallo Stato alla Cassa Depositi e Prestiti è un modo per non privatizzarla mai e, se possibile, rincara la dose: Ci sono migliaia di aziende pubbliche di proprietà di Regioni, Comuni e Province. Alberto Orioli, sul Sole 24 Ore del 14 ottobre scorso, ha stimato che siano quasi ottomila, con un numero di consiglieri di amministrazione che supera i 19.000. La legge di Stabilità si limita a porre dei paletti alle loro spese. Servirà a poco. L’unica soluzione è venderle. La conclusione è molto sensata e racchiude una massima di sana filosofia politica: Privatizzazioni e spending review sono strettamente collegate. Perché non si può ridurre significativamente la spesa se prima non si riduce lo spazio che lo Stato occupa nell’economia. Non si terrà conto, ci si può scommettere, dei suggerimenti di Francesco Giavazzi. Così come non smuove il governo la storiaccia brutta della pressione fiscale. Mesi e mesi a discutere di IMU: sì, no, non so, giammai, però, magari un aumentino, tanto per gradire. Ma per confondere le acque è essenziale fare il gioco delle tre carte. Solo sulla seconda casa, no, anche sulla prima se è di lusso o se sei ricco o se mi stai antipatico (forse, questo non è ancora stato scritto ma tant’è). Per dare un contentino ai sudditi, blocchiamo tuttavia i  pignoramenti sulla prima casa. Ma, già che ci siamo, cambiamo nome alle imposte: non più ICI o IMU ma TARES, TARSU, TIA, TARI o TRISE che pare di assistere al tradizionale gioco della morra con i giocatori che a voce alta danno un numero da 2 a 10 (la morra) talvolta storpiato in espressioni dialettali parecchio vivaci. Se l’intenzione era di confondere l’iniziativa merita il premio Oscar. Se si tirava a far capire la pensata è proprio decisamente eccentrica. Per rabbonire e compensare i tartassati tagliamo, insieme e a loro favore, il cuneo fiscale, un fatto significativo anche se, in definitiva, sembra risolversi in pochi, insignificanti spiccioli. Per controbilanciare in ogni caso l’emorragia che da esso potrebbe derivare, diamo il via, senza esagerare, a un bell’aumento dell’IVA dal 21 al 22% (fra continue conferme e successive smentite, erano state fatte dal governo solenni promesse che l’IVA non sarebbe stata toccata), da sostituire in alternativa con l’aumento degli acconti fiscali (al 100% dell’acconto IRPEF al 101% dell’acconto IRES, al 110% dell’acconto sulle ritenute che le banche devono versare sugli interessi maturati su conti correnti e depositi). Risultato pratico: più IVA e più acconti. Mai una volta che, per sbaglio, si pensi ad una spesa pubblica in meno. Al proposito, Angelo Panebianco, nell’editoriale del Corriere della Sera del 7 luglio 2013, sosteneva acutamente che i beneficiari delle pubbliche spese sono relativamente pochi e, quindi, facilmente organizzabili, coloro i quali ne subiscono il costo sono molto più numerosi e inevitabilmente disorganizzati. Questo spiega perché è relativamente facile accrescere le pubbliche spese. Alla lucida analisi del giornalista l’on. Antonio Martino, sul suo blog, aggiunge nello stesso giorno: Se i beneficiari della spesa pubblica sono pochi, ognuno di loro ha relativamente molto da guadagnare dall’aumento. Una crescita di sessanta milioni di euro che vada a vantaggio di sessantamila persone rappresenta un utile di mille euro a persona. Se il costo della decisione viene spalmato sull’intera collettività nazionale, ogni italiano subirà un danno di un solo euro. Nessuno fa le barricate per una perdita di un euro, ma molti sono disposti a battersi per ottenere mille euro in più. Lo stesso vale per la riduzione: le vittime otterrebbero solo un euro di vantaggio, i beneficiari subirebbero un costo di mille euro. Come sosteneva Vilfredo Pareto: In queste condizioni, l’esito è indubbio, gli sfruttati subiranno uno smacco totale. Il fatto nuovo è che ora la misura è stracolma e che gli italiani non credono più alla politica. Il 25% dei voti al Movimento 5 stelle aveva lasciato scioccati i signori del Palazzo. Non hanno capito l’antifona ed ora, spontaneamente, con il Movimento dei forconi o con il Movimento 9 dicembre, gli italiani ci riprovano e stanno dando libero sfogo ad una rabbia repressa da troppo tempo. È inevitabilmente pericoloso istigare una folla imbufalita. Può essere che la protesta sia al momento un fuoco di paglia ma, se anche fosse e se non si cambia, un grande incendio potrebbe scoppiare agevolmente di nuovo e più in grande. Ed è fuorviante, su entrambi i fronti invero, del governo e dei forconi, cercare di circoscrivere e limitare le colpe attorno ad Equitalia, promuovendo alcuni interventi correttivi sulla società di riscossione delle imposte. L’anatema che ne segue (sono sporchi, brutti e cattivi) è l’ennesima bugia di chi non sa cosa fare: in realtà si contesta l’estrema durezza del lavoro di Equitalia ma ci si dimentica del fatto che si tratta di un lavoro svolto con coerenza ed efficienza, in piena aderenza ed in diretta osservanza delle norme vigenti. Ciò che non funziona piuttosto è una legislazione fiscale che dall’inizio della riforma tributaria, dal 1973 ad oggi, sotto la famelica spinta dei governi e del potere per fare cassa a tutti i costi e soddisfare le incontinenti spese pubbliche, ha prodotto disposizioni a getto continuo, pensate male, scritte peggio e largamente insensate. È convincimento corrente che un’azione, un atto, un’opera siano giusti perché lo dice la legge. Ciò è almeno opinabile dato che, ad esempio, lo sterminio nazista degli ebrei deriva da una legge. O l’apartheid in Sudafrica o la schiavitù dei negri in America. O le esecuzioni capitali ancor’oggi in varie parti del mondo. L’arbitrio in nome della Legge è il peggiore degli arbitrii perché si riveste di oggettività e di obbligatorietà e non ha vincoli o barriere efficaci e cancella la civiltà giuridica romana del salus rei publicae suprema lex est. Il precedente storico rimanda ai tribunali giacobini del Terrore. La legge richiama il giudice. Come può esistere una legge ingiusta così anche un giudice che applica leggi ingiuste, o peggio, interpreta la legge giusta secondo una sua discutibile coscienza personale rischia di compiere un’ingiustizia grave. Secondo il vicesegretario dell’OCSE Pier Carlo Padoan, se la giustizia civile non funziona c’è minore concorrenza e minore fluidità nel mercato del lavoro. Non basta. Si crea un circolo vizioso dal momento che le imprese hanno meno incentivi a investire perché trovano disincentivi alla loro attività futura e una minore concorrenza a parità di regole nei mercati e una minore fluidità del mercato del lavoro. Inoltre si riversano effetti negativi anche sulla disponibilità e sul costo del credito. Il tema della giustizia civile è di primaria attualità nell’agenda del governo, garantisce il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, secondo cui è necessaria una terapia d’urto per rispondere alla impellente necessità di ridurre gli arretrati nei tribunali e tagliare oltre un milione e 200 mila pratiche arretrate in cinque anni. Risultato che si dovrebbe ottenere grazie al varo del decreto del fare che ripristina la mediazione civile obbligatoria per le controversie riguardanti i diritti disponibili. Un istituto, quello della mediazione civile obbligatoria che, incidentalmente, non è una trovata nuova perché era stato introdotto fin dal 2010 dall’allora ministro della Giustizia, Angelino Alfano, con un decreto legislativo poi sospeso il 24 ottobre 2012 dalla Corte di Cassazione, che ne aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale per eccesso di delega. Può anche essere d’aiuto ma, come per Equitalia, non si centra il nocciolo del problema se ci si focalizza su questo aspetto senza aggredire il problema perché non è che alla giustizia ordinaria debba aggiungersi una giustizia di supplemento. Forse, al suo interno, se mai lo si potrà esaminare, qualche disfunzione può essere scovata. Già troppi magistrati fuori ruolo. Sono i giudici che non indossano la toga per il fatto di essere distaccati a Palazzo Chigi, in ministeri, presso ambasciate, authority e uffici vari, magari addirittura in Guatemala. Distacchi per servizi al di fuori o molto vagamente collegati all’amministrazione della giustizia che creano per di più una certa qual dubbia commistione tra politica, burocrazia e magistratura e sono una rappresentazione della fattibilità oggettiva della separabilità delle carriere. Inoltre, troppe presenze sulla stampa e in televisione non servono all’efficienza dell’apparato giudiziario dato che, fatalmente, comportano una minore attenzione al lavoro da svolgersi nelle aule del Tribunale. Quando la recondita virtù, per ridurre gli arretrati nei tribunali, potrebbe presumibilmente essere quella di lavorare con maggior lena.

Il punto ha, comunque, ben diversi presupposti. La ricetta di Maffeo Pantaleoni stava nella riduzione delle spese che mostra la vera abilità di chi governa mentre anche un imbecille è capace di tassare. É verità paradossale che le aliquote d’imposta sono oggi troppo alte e il gettito delle imposte troppo basso, e che il modo migliore per aumentare alla lunga il gettito è quello di tagliare le aliquote, John Kennedy, 1960. Grazie alla riforma di John Kennedy, che lì per lì tagliò l’aliquota massima dell’imposta sul reddito delle persone fisiche dal 91% al 70%, il gettito aumentò di oltre il 50% in cinque anni. La riduzione successivamente realizzata da Ronald Reagan, del 30% per tutti, portò l’aliquota marginale massima al 28%. La diminuzione delle aliquote fece raddoppiare il gettito dell’imposta sul reddito in dieci anni. Nei due casi – e in innumerevoli altri precedenti e successivi episodi – la riduzione delle aliquote ha fatto aumentare il gettito ed ha anche grandemente contribuito a far gravare l’onere tributario più sui contribuenti ricchi che sugli altri. Grazie alla riforma di John Kennedy il carico fiscale sopportato dai contribuenti con più di 50 mila dollari di reddito all’anno passò dal 12 al 15 per cento del totale; grazie a quella di Ronald Reagan, l’uno per cento più ricco, che nel 1981 sopportava il 17,6% del carico fiscale, nel 1988 passò a subire il 27,5%. In entrambi i casi, il taglio delle aliquote – com’era già accaduto negli anni ’20 con la riforma del Presidente John Calvin Coolidge che riuscì nell’impresa di ridurre le imposte ma ancor più le spese federali così da far calare rapidamente il debito pubblico interno – ha fatto aumentare il gettito e resa più equa la distribuzione del carico fiscale. Bocciata la mozione del Movimento 5 Stelle, pare che le società concessionarie di slot machines potranno versare all’Erario solamente 611 milioni a fronte dei 98 miliardi accertati per via del condono che è previsto nell’articolo 14 del decreto IMU. La disposizione è macchinosa e dovrebbe essere studiata a fondo in tutti i suoi risvolti per poterne riferire, ma par di capire si tratti di una norma di clemenza prescritta in base ad un presupposto processuale – quindi, riferibile ad alcuni soggetti, con una valenza ad personam che in dottrina appare un criterio generalmente sconveniente – e non sostanziale come sempre in passato per tutti i condoni, che, per di più si distinguerebbe in relazione ad una potenziale convenienza di particolare interesse dell’erario e non per la capacità di ridurre il contenzioso quale fine di interesse generale, risolvendosi in un incostituzionale (?) approccio discriminatorio tra soggetti basato sulla condizione economica delle controparti del giudizio. Chissà che il beneficio vada ascritto, se non precisamente alla riduzione delle aliquote, almeno alla riduzione delle imposte. Sotto il provocatorio titolo Domande a Letta, un presidente timido Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera dell’8 dicembre 2013 hanno avanzato diverse osservazioni: A sette mesi dal suo primo discorso alle Camere, impegni vaghi non bastano più. L’intervento del presidente del Consiglio in Parlamento del 29 aprile … era di una inaccettabile vaghezza. A fronte dei mille punti sollevati c’è l’imbarazzo della scelta: è forse giunto il momento di dare più autonomia alle università premiando le migliori e costringendo le peggiori a impegnarsi di più, oppure a chiudere? Altrimenti, dove sta la meritocrazia tanto sbandierata da Enrico Letta? … In occasione di Expo 2015, grazie a un accordo con i sindacati, si potranno stipulare 800 contratti di lavoro improntati a una maggiore flessibilità, in deroga alle attuali norme sul lavoroIl presidente del Consiglio ha scritto: Ottima intesa sul lavoroSi impegna a trasferire quel modello ai contratti nazionali? Che cosa ha in mente di preciso per il mercato del lavoro? Economisti e giuslavoristi come Olivier Blanchard del Fondo monetario internazionale o il nostro Pietro Ichino hanno proposto varie alternative su come coniugare flessibilità e protezione. Quale strada intende adottare? … Vuole il governo riconoscere che il problema del Mezzogiorno deriva da decenni di assistenzialismo che ha sostituito l’impiego pubblico all’iniziativa privata? … La nomina di Carlo Cottarelli a commissario alla Revisione della spesa pubblica è definita un’ottima scelta da parte dei due giornalisti che tuttavia rilevano come al nominato non siano stati assegnati traguardi precisi. Il documento di indirizzo del governo pone un obiettivo di risparmio pari ad almeno due punti di Pil (circa 32 miliardi) entro il 2016, con tagli significativi anche nel 2014 e 2015. Che significa? Qual è l’ammontare dei tagli che il commissario deve realizzare nel 2014 e nel 2015? E il governo si impegna a sostenere le proposte del commissario? E a impiegare ogni euro risparmiato per ridurre la pressione fiscale? Di che strumenti dispone il commissario per realizzare questi tagli? Altrimenti, il suo sarà un esercizio accademico destinato, come i precedenti, a rimanere lettera morta. Le revisioni della spesa erano iniziate nel 2006 con il ministro Padoa-Schioppa, sono continuate nel governo Monti, ora ne abbiamo un’altra. Ma, appena si parla di tagliare qualcosa, ecco un’alzata di scudi che spesso parte dalla burocrazia, se non da membri dello stesso governo … Perché, per la riduzione della spesa, non si comincia dalla lobby dei politici che darebbe agli italiani un segnale forte ed inequivocabile? Il fatto è che la classe dirigente applica a sé stessa il principio del dopo (il finanziamento pubblico ai partiti chiuderà con il 2017) mentre al popolo propina il dogma del prima, persino con effetto retroattivo (le aliquote IMU sono formalizzate a dicembre 2013 e non riguardano il 2014 ma l’anno appena trascorso) … Il premier Letta parla spesso di crescita ed equità. Come intende riformare il sistema fiscale per raggiungere questo obiettivo? Ad esempio, confermerà la Tobin tax, un’imposta su alcune transazioni finanziarie e che produce poco reddito con l’unico effetto di dirottare attività finanziarie a Londra riducendo opportunità di impiego e crescita … Si parla spesso di sostituire la cassa integrazione – che difende i posti di lavoro, anche se in imprese improduttive – con sussidi di disoccupazione che proteggono i lavoratori. Si ritiene possibile urtare al proposito la sensibilità della CGIL? Si parla spesso di riforma della giustizia ma cosa si intende fare per migliorarla? Ma, soprattutto, per farla accettare ai magistrati? … L’Italia è in prima linea sull’immigrazione. Quest’ultima fa bene se non è clandestina e se si accolgono persone con elevato capitale umano, tutto il contrario di quanto abbiamo fatto e continuiamo a fare. Giovanni Sartori, a proposito, ha detto a La Zanzara su Radio 24 che la Kyenge e la sua consigliera Livia Turco vogliono le quote riservate agli immigrati nella società. Siamo alla demenza. Per contro, Alberto Alesina e Francesco Giavazzi ricordano come Molti Paesi, ad esempio Stati Uniti, Canada, Nuova Zelanda, Australia, hanno beneficiato enormemente di un’immigrazione ad alto capitale umano. Noi, invece di importarlo, lo esportiamo.

Sono, come detto, molti argomenti, ma essi sono in stretta proporzione con i tanti temi che non sono mai stati radicalmente risolti in questi anni. Eppure, non possiamo attenderci molto dall’attuale governo. Ai cattocomunisti nostrani non sono mai interessate le ricadute delle loro scelte politiche. A loro bastano unicamente le loro nobili intenzioni, decorose, dignitose ed eleganti per definizione. Se non lo stesso Renzi di persona (di origine democristiana) ora che è diventato il Segretario del partito, è la sua squadra a firmare il programma del nuovo PD (a trazione socialista). Mica poi tanti anni fa Matteo Renzi aveva scandalizzato i maggiorenti del PD da cui era vivamente osteggiato. Sia quelli di derivazione comunista, come Pier Luigi Bersani o Massimo D’Alema, sia quelli di generazione cattolica, come Rosy Bindi, si erano persino sentiti legittimati a denunciare la sua inclinazione fascistoide o la sua natura di cripto-berlusconiano. Sarà arduo approdare ad una sintesi anche perché non esiste più la cultura civile e politica di una volta. Quanti uomini di sinistra, infatti, sarebbero oggi disposti a sottoscrivere l’intendimento espresso nell’ambito dell’Assemblea Costituente, di contrarietà all’istituzione della Corte costituzionale perché il Parlamento è eletto dal popolo sovrano e nessuno può censurarne la volontà? Senza sapere, prima, che la dichiarazione è di Palmiro Togliatti? Molti, fantasticano soluzioni mirabolanti quanto incorporee. Parole, parole, parole, diceva una vecchia canzone di Mina. Debora Serracchiani richiama astrattamente le riforme istituzionali e il taglio dei costi della politica come se nessuno l’avesse mai detto. Federico Taddei, responsabile per l’economia nella segreteria di Renzi, indica la riduzione dell’Irpef tagliando la spesa, senza comunque toccare i capitoli che hanno a che vedere con welfare, scuola e ricerca. Per Marianna Madia, responsabile del lavoro, bisogna invece correggere la legge Fornero risolvendo la questione degli esodati (ostico se non difficilissimo) e introdurre il reddito minimo garantito (inverosimile e velleitario). È preoccupante l’atteggiamento dello stesso Matteo Renzi che si è dichiarato d’accordo con il capo dei metalmeccanici della FIOM-CGIL, Maurizio Landini, il quale reputa un doloso tradimento degli operai l’accordo stipulato dalla FIAT a seguito del referendum indetto in fabbrica, approvato dalla maggioranza dei lavoratori e confermato da diverse sigle sindacali. Matteo Renzi celebra l’elogio della ribellione e propone un programma fatto di sussidio universale per tutti i disoccupati, vuole la modifica della Bossi-Fini con introduzione dello ius soli per chi nasce nei nostri confini, si augura l’apertura alle unioni civili e alle coppie gay (civil partnership). Spiace constatarlo ma il giovane Segretario del PD ripropone vecchi e immutati clichés della sinistra e non traccia alcuna proposta realistica per affrontare la crisi che perseguita il nostro Paese.

Più concreto e agganciato alla realtà dei fatti dato che il suo ragionamento si fonda sui numeri del governo e sui Trattati in vigore, il commissario UE agli Affari economici, Olli Rehn, sull’argomento Italia, ha rilevato come il governo del nostro Paese non faccia registrare i progressi promessi sul fronte della riduzione del debito che, anziché diminuire, infatti, è ancora aumentato:

annodebitoindicePILindice% sul PIL
20101.843.015 1.548.816 119,00%
20111.897.900102,981.580.220102,03120,10%
20121.988.363104,771.565.000127,00127,00%
2013 stima provvisoria2.068.565104,03 130,30130,30%
rielaborazione dei dati raccolti dalla fonte: wikipedia.org/wiki/Debito pubblico, dicembre 2013

e che la spending review e le privatizzazioni sono interventi finora esclusivamente annunciati e soltanto tratteggiati dalla legge di Stabilità. L’unica via d’uscita dalla crisi, se non sappiamo fare altro, sarebbe perciò un continuo programma di austerità fiscale. I rilievi mossi, cui peraltro noi in Italia aderiamo molto supinamente essendo europeisti convinti, hanno il difetto di pervenire da un’Europa sempre parecchio critica nei nostri confronti. C’è da dire che Olli Rehn aveva esaminato, ad esempio, l’efficacia dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e, a pagina 6 del documento denominato Adressing Italy’s high-debt/low-growth challenge, aveva concluso, sensatamente, affermando: In particolare, la legislazione sui contratti a tempo indeterminato potrebbe armonizzare i possibili licenziamenti alle dimensioni dell’impresa rimpiazzando l’obbligo di riassunzione (in vigore per aziende da oltre 15 dipendenti) con dei pagamenti proporzionati alla durata del cessando contratto. Enrico Letta, punto sul vivo, è sicuro invece che gli obbiettivi di crescita del 2014 (+1% del PIL) saranno confermati. A Rehn dico che i nostri conti sono in ordine, la nostra politica economica è equilibrata. Il nostro impegno va premiato, non frustrato; visto che noi, al contrario di altri Paesi, siamo sotto il 3 per centoUn commissario – osserva il premier – non può permettersi di esprimere il concetto di scetticismo. Altrimenti – aggiunge – potrebbe trovarsi un Europarlamento pieno di euroscettici. Standard e Poor’s Corporation, la società privata americana che realizza ricerche finanziarie e analisi su titoli azionari e obbligazioni, fra le prime tre agenzie di rating al mondo insieme a Moody’s e Fitch Ratings, data la ridotta competitività dell’Italia per via delle mancate riforme, con particolare riferimento a quella del mercato del lavoro (il World economic forum di Ginevra, del resto, per l’efficienza pone l’Italia al 137.posto su 148 Paesi), per il 2014 ha previsto una crescita dello 0,4% ed un aumento della disoccupazione. Anche l’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, la nota organizzazione internazionale di studi economici per i paesi sviluppati) non va oltre lo 0,6%. Non soltanto il primo Ministro Enrico Letta ma finanche il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano si è sentito tarantolato e, anche se di solito simili iniziative vengono assunte al massimo dal ministro competente (ma qui la reazione al commissario UE è indotta da una critica che ha riguardato il governo da lui fortemente voluto), è entrato in polemica diretta con il commissario europeo giudicando necessaria una correzione di rotta e un impegno nuovo per promuovere crescita e occupazione a livello europeo e rammentando di essere soddisfatto del cammino percorso dall’Italia, semmai negativamente influenzato dalla mancata crescita e dalla recessione. Come se la mancata crescita non dipendesse da noi e la recessione fosse una sciagura che ci capita fra capo e collo senza alcun nostro concorso. Il fatto è che l’Italia – compreso il Quirinale che è il sesto palazzo più grande del mondo in termini di superficie e la più estesa residenza di un capo di Stato e costa, tra stipendio personale di Napolitano, dipendenti, manutenzione, auto blu e così via  (Il Fatto Quotidiano, 13 dicembre 2013), più della Casa Bianca e di Buckingham Palace – vive al di sopra dei propri mezzi. Il Presidente della Commissione europea José Manuel Barroso, giunto in Italia per assistere alla prima della Scala, precisato che Il deficit è in ordine ma il debito pubblico rimane ancora molto elevato, ha espresso simpatia per il nostro Paese ma ha, di fatto, condiviso l’ammonimento di Olli Rehn definendo la sua una sfida amichevole. Peccato che, verso altri Stati, la stessa sfida non sia stata scaraventata loro addosso come è successo a noi. È una constatazione molto triste e che suona proprio male per la nostra credibilità internazionale e per la sensazione che i nostri politici hanno di contare qualcosa nel mondo.

Mi è capitato di guardare sui giornali un annuncio pubblicitario che ammoniva: Senza il non profit l’Italia non vive. Il non profit potrà essere utile, magari anche molto fruttuoso, potrà rivelarsi oltremodo caritatevole ed essere un importante mezzo per diffondere ed agevolare la pacifica coesione sociale, ma l’annuncio è falso. Il non profit è un’attività economica e sociale che non supera i limiti di un ristretto ambito di applicazione. In nessun caso può essere definito vitale se non in un’ottica deviante e per un inganno conclamato che riporta al mondo della cooperazione. Perché mai il non profit potrà sostituirsi all’impresa commerciale né rivelarsi atto a risolvere i problemi economici di un intero Paese. Se il non profit fosse un’impresa, oltre tutto, si chiamerebbe impresa e non, in modo equivoco e distorto, non profit. Il fatto vero è che da noi si odia l’impresa e si spera e ci si augura che il non profit la possa sostituire. È una mentalità di fondo che va cambiata. Si pensa in larga misura che la ricchezza sia un indice presuntivo di evasione quando non un furto perpetrato con destrezza. L’impresa è considerata un’organizzazione dedita alla speculazione, all’evasione fiscale o allo sfruttamento dei lavoratori. Nel periodo 2001-06, con una chiara visione cattocomunista del mondo, l’Udc si oppose fieramente alla riduzione delle aliquote di imposta più alte perché Marco Follini la considerava un regalo fatto ai ricchi. Cosa del tutto balorda: unicamente la ricchezza è in grado di generare prosperità, non certo la povertà. L’Italia si è in tal modo ridotta ad essere un Paese pensato per decreto, a dimostrazione del fatto che i politici (o i tecnici al loro seguito) difficilmente sanno cosa davvero sia uno sviluppo che nasce dal mercato o non dalle norme dei burocrati o da un moralismo bigotto. È un fatto che la classe dirigente che ci ha continuamente governato è cresciuta guadagnandosi una remunerazione – non si vuole qui assolutamente porre in discussione il suo pieno merito che è aspetto tutt’affatto diverso – del tutto indipendente dall’andamento dell’economia reale. Semmai il merito sta nella sua capacità di scalare i gradini più alti di una società che adora il pubblico, è fortemente statalista anche se, in modo contradditorio, rimane perfettamente individualista. Il governo Letta ha stanziato 1,5 miliardi di euro dal fondo europeo per fronteggiare la disoccupazione giovanile e fornire incentivi per le assunzioni, un fondo di garanzia per il sostegno delle piccole e medie imprese, e ha previsto crediti agevolati alle aziende che innoveranno il loro processo produttivo mediante l’acquisto di nuovi  macchinari non superiori ai 2 milioni coi soldi che verranno anticipati dalla Cassa depositi e prestiti, con finanziamento da restituire a tassi dimezzati rispetto a quelli di mercato. Si tratta di risorse più o meno buttate. Un’azienda sana sta in piedi con i propri mezzi e ha esclusivamente bisogno di non essere gravata di adempimenti burocratici, di non essere tampinata da sindacati ideologizzati o da giudici in cerca di visibilità e di essere vessata con un’imposizione asfissiante, al contrario di un’azienda in difficoltà che, proprio per il suo stato di dissesto, sarebbe bene chiudere e non aiutare. È un concetto elementare. Dispero che lo si capisca. Tutti i pasticci che stanno succedendo oggi in Italia sono perciò la normalità della nostra vita quotidiana.

Sono frutto di malafede, di ipocrisia o di ignoranza? Personalmente propendo per la terza ipotesi. Perché chi è in malafede, generalmente, cerca di non mettersi in mostra, tende a nascondere le proprie malefatte con accurata intelligenza o, come minimo, con opportunistica furbizia al fine di non farsi scoprire. Quanto maggiore è il silenzio che circonda la sua attività tanto migliori saranno i danni e i malanni che riuscirà a procurare. Relativamente all’ipocrisia, essa in nessuna situazione è mai elemento risolutivo e può indifferentemente associarsi tanto alla malafede come all’ignoranza. L’ipocrita cerca, infatti, di coprire le proprie imprese con un velo di conciliante perbenismo usando frasi fatte quali, ad esempio, l’interesse per la verità, la tutela del bene comune, la difesa dei più deboli, la salvaguardia di superiori principi di giustizia e di onestà, o di demolire le tesi avverse accusate, a seconda delle circostanze, di populismo, revisionismo, egoismo, revanscismo, sete di potere o, addirittura, di demonizzare la figura di chi la pensa diversamente nella speranza di togliergli ogni prestigio cancellando la sua personalità. L’ignorante, al contrario, vive beato e più ha potere tanto più ritiene che i propri convincimenti e le proprie azioni siano il frutto di un sapiente discernimento. Silvio Berlusconi, ad esempio, viene condannato per frode fiscale anche se non ha firmato i bilanci della società – è da ignoranti non ricordare che, per principio fondamentale, la legge penale è personale – mentre chi li ha firmati per davvero – in totale assenza, per ignoranza, di elementari conoscenze di diritto societario e in spregio di quel buon senso comune che non assiste mai gli ignoranti – non viene nemmeno sfiorato dall’inchiesta. E viene condannato (con la decadenza da senatore) due volte per lo stesso reato (sentenza penale e legge Severino sulla decadenza) violando invero allegramente il Codice civile (art. 13 preleggi: Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati) e la Costituzione (art. 25, 2.comma: Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso) oltre che le leggi dell’Europa che, per altro verso, la maggioranza dei nostri politici, come si diceva, tanto venerano. Corrado Carnevale illustra al riguardo cos’è l’astratto formalismo che gli veniva imputato: osservanza scrupolosa della legge scritta. Quando il giudice si considera legibus solutus e piega le leggi al suo fine, foss’anche per intenti nobili, mette lo Stato sullo stesso piano delle organizzazioni criminali.

Non è chiaro che differenza esista fra l’imbarcare su di un volo di Stato da Roma a Milano il proprio figlio, come è successo parecchi anni fa, ed il portarvi a bordo il proprio fidanzato per un viaggio in Sudafrica scatenando addirittura una piccata risposta da parte di Enrico Letta, che reputa il dubbio un pregiudizio sessista, indizio di un doppiopesismo palese, a Vittorio Feltri, che si era posto la domanda e che, facendo il giornalista e non il Presidente del Consiglio, ha immediatamente replicato per le rime. Ha commentato il Presidente del Codacons Carlo Rienzi rifacendosi al precedente: in passato altri esponenti istituzionali di sesso maschile furono denunciati per situazioni assolutamente identiche. Non è chiaro nemmeno che divario esista fra l’azione dimostrativa del rappresentante di un movimento politico, per quanto di negletta ispirazione fascista, che porta via una bandiera UE (e ottenuto lo scopo la restituisce) e si vede appioppare, seduta stante, tre mesi di carcere e le infinite manifestazioni di sindacati, centri sociali, studenti vari, no global e chi più ne ha più ne metta durante le quali si ha la licenza di fare il bello e il brutto tempo (e i danni restano a carico della collettività senza che nessuno mai paghi), sempre in una cornice di giustificata comprensione perché si tratta di evidente disagio sociale. Perché per i forconi si deve subito immaginare vi siano volute infiltrazioni di criminalità o di estrema destra o siano frutto di una deriva estremista e in ogni altro caso, anche se si sfascia e si devasta, ci sia una tolleranza che può trasformarsi in connivenza? È grave – e sintomatico – che negli impulsi di ribellione dei forconi, per quanto probabilmente disordinati, discontinui e frammentari, non si riescano a scorgere delle passioni individuali che rifiutano e negano quelle collettive.

L’ignoranza, se non cambiamo registro, finirà con il soffocarci.

D’altra parte, Carlo M. Cipolla, stimato professore di economia di fama internazionale, in Le leggi fondamentali della stupidità umana vero problema per l’economia mondiale, sosteneva che la società fosse in mano a quattro categorie di persone:

·         gli intelligenti, che creano ricchezza per sé e per gli altri

·         i fessi, che dissipano la propria ricchezza a favore di altri

·         i delinquenti, che si appropriano di ricchezza altrui in modo scorretto

·         gli stupidi che dissipano la ricchezza altrui senza trarne alcun beneficio

avvertendo che nei primi tre casi la ricchezza cresce o non diminuisce. Non sarà che l’Italia rischi di essere affossata dalla quarta categoria?

© Carlo Callioni 2013