In questo particolare momento è argomento di viva attualità parlare di IMU per gli immobili della Chiesa distinguendo la destinazione commerciale da quella religiosa e sociale. Ne tratta anche un emendamento al decreto liberalizzazioni all’esame del Senato per iniziativa diretta di Palazzo Chigi. Si pagherà l’IMU per quegli immobili nei quali si svolgono contemporaneamente tanto l’attività non commerciale che l’attività commerciale a patto che l’esercizio commerciale, ancorché non esclusivo, sia tuttavia prevalente. Purtroppo é il concetto di prevalente ad essere equivoco. Essendo qualitativo e non quantitativo, solleverà dubbi a non finire e ciascuno lo piegherà per spiegare che vale solo per tutti gli altri. Forse ho capito male io ma la questione riguarda la Chiesa o, insieme ad essa, tutto il mondo del non commerciale? Sulla tassabilità degli immobili non commerciali la Chiesa non pare sollevi obiezioni ma dal mondo ben più vasto degli enti non commerciali o non profit non mi pare si siano levate voci di disapprovazione o precisazioni o puntualizzazioni. Ritengono di essere al di fuori della nuova impostazione?
Vediamo più da vicino come oggi, prima delle eventuali novità, stiano davvero le cose. Già é un’anomalia rilevante e manifesta che fra gli enti non commerciali possano rientrare le società cooperative se si vuole che, per definizione della norma fiscale (cfr.: art. 3 comma 187/a della legge 1996/662 – legge composta di tre soli articoli: il primo di 267 commi, il secondo di 224 e il terzo di 217, per un totale di appena 708 commi anche se in realtà essi sono molti di più perché esistono diversi commi bis e ter; in pratica una piccola enciclopedia universale), le società cooperative siano enti non commerciali o non profit, come si trattasse di enti che non hanno per oggetto esclusivo o preminente l’esercizio di attività commerciali. Quando, com’è nella fattispecie, la legge diventa quindi arbitraria non essendo indifferente al destino individuale di qualcuno, allora è la volontà del Legislatore ad imporre la coercizione. Siamo al solito Tutti gli animali sono uguali ma alcuni animali sono più eguali degli altri di George Orwell. Quanto ci si trova lontani dal pensiero di Friedrich August von HayekFriedrich August von Hayek (Vienna, 8 maggio 1899 – Fribur... Leggi per il quale La concezione della libertà sotto la legge si fonda sull’asserzione che quando obbediamo alle leggi, intese come norme generali e astratte stabilite senza tener conto del loro applicarsi a noi, non siamo soggetti alla volontà di altri e, pertanto, siamo liberi!
Sono giudicati da disposizione di legge (Testo Unico delle Imposte sui redditi, D.P.R. 22.12.1986 n. 917, Titolo II – Imposte sul reddito delle società Capo III – Enti non commerciali residenti, articoli da 143 a 150) giustamente irrilevanti per gli enti non commerciali la loro natura pubblica o privata, l’apprezzamento sociale dell’attività svolta, l’assenza del fine lucrativo (pazienza se il fatto di non avere fine di lucro si desuma da dichiarazioni di intenti e non, piuttosto, da comportamenti essenzialmente concludenti) o la destinazione degli avanzi di gestione. Di fatto, la disciplina ha inteso valorizzare situazioni e realtà tipiche di un inossidabile e mirato Welfare state ed avvantaggiare, di conseguenza, attitudini di mutualità, di associazionismo, di volontariato e di generica assistenza. Fin qui – pur con qualche non infondata riserva – nulla quaestio, anzi, potrebbe persino riconoscersi la legittima utilità sociale di un’operosità positiva rivolta al bene che, specialmente, eccelle nel settore del volontariato (quando è vero volontariato, il che non sempre accade dato che è bene correre al soccorso di mezzo mondo ma solo a patto e dopo aver provveduto ed eliminato la povertà ed i tanti problemi che si hanno a casa propria). Poiché, però, l’attività si intende sia quella essenziale volta al raggiungimento dello scopo sociale come stabilito nello statuto e di fatto esercitata, non è misterioso comprendere come mai la legge abbia subito una notevole serie di modificazioni, giusto per adattare le circostanze ai fini. Il solo primo articolo, oltre alla sua diversa numerazione, da 108 a 143, ha subito nel corso degli anni (ma in meno di 40 anni, dal via nel 1973 della riforma tributaria) ben 35 interventi modificativi e/o integrativi, troppi in generale (circa uno all’anno) per ogni norma che sia anche solo stata pensata con la testa ma soprattutto per regole disposte, in fin dei conti, a disciplinare situazioni tendenzialmente esentate dall’imposizione. Si sono volute esaminare le situazioni un po’ caso per caso e distinguere, in maniera assai pignola, fra enti con attività diretta a beneficio dei propri associati ed ONLUS che, con attività di solidarietà o di utilità sociale, si rivolgono, invece, ai terzi. Sembrano quasi quei concorsi che, malignamente si mormora, non siano realmente aperti a tutti ma vengano organizzati su misura di modo che sia promosso chi si vuole veramente promuovere.
Per quanti sforzi siano stati compiuti, la normativa non è infatti riuscita ad eliminare la differenza sostanziale fra esercizio di impresa commerciale e attività non lucrative o non commerciali. E’ riuscita unicamente ad inquinarla partendo già nell’art. 143 con la macroscopica e stupefacente contraddizione di definire reddito non commerciale quello di impresa prodotto dagli enti non commerciali. Dovendo escludere teoricamente ogni ipotesi di attività commerciale ha fatto passare come funzioni agevolabili, per converso, anche se con estrema fatica, attività commerciali solo perché legate a specifiche finalità istituzionali. E non é solo un bisticcio di parole. Più concretamente, ha ammesso che possano esistere, in qualche maniera, attività (anche economiche, ergo commerciali) purché subordinate, correlate e nobilitate da finalità istituzionali assolutamente ed onorevolmente non economiche. La fantasia ha quindi avuto libera uscita. Al fine di non considerare commerciale l’attività (art. 143) occorre si abbia il pagamento di corrispettivi che non eccedano i costi di diretta imputazione anche se, poi (art. 148, 2.comma), all’opposto, si concede che cessioni di beni e prestazioni di servizi possano dare luogo a pagamento di corrispettivi specifici quando si ha riguardo ad associazioni politiche, sindacali e di categoria, religiose, assistenziali, culturali, sportive dilettantistiche, di promozione sociale e di formazione extra-scolastica della persona (e chi più ne ha più ne metta!) purché le attività siano svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali ed a favore degli iscritti, associati o partecipanti, di altre associazioni che svolgono la medesima attività e che per legge, regolamento o statuto fanno parte di un’unica organizzazione locale o nazionale, dei rispettivi associati o partecipanti e dei tesserati dalle rispettive organizzazioni nazionali (saranno gli amici degli amici?) e, sempre (la propaganda è l’anima persino del commercio non commerciale), per le cessioni anche a terzi di proprie pubblicazioni cedute prevalentemente agli associati (art. 148, 3.comma). Al fine di non considerare commerciale l’attività (art. 148, 4.comma) occorre inoltre evitare con cura la gestione di spacci aziendali e di mense, l’organizzazione di viaggi e soggiorni turistici, la gestione di fiere ed esposizioni a carattere commerciale, la pubblicità commerciale e le telecomunicazioni o radiodiffusioni circolari. Senza tuttavia esagerare. Che diamine! Se si tratta di associazioni di promozione sociale e se l’attività è sviluppata presso le sedi in cui viene svolta altresì l’attività istituzionale, la gestione di bar ed esercizi similari nonché l’organizzazione di viaggi e soggiorni turistici, infatti, sempreché le predette attività, il va sans dire, siano strettamente complementari a quelle svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali e siano effettuate nei confronti degli stessi soggetti di cui al 3.comma (saranno ancora gli amici degli amici?) anche in presenza (art. 148, 5.comma) di corrispettivi specifici (criterio che entra ed esce dalla legge con estrema e sospetta facilità) sono non economiche ma puro spirito. Strana concezione della territorialità al proposito: il bar o il ristorante possono anche trovare collocazione presso la sede dell’attività istituzionale, ma il viaggio non può che svolgersi al di fuori. L’organizzazione di viaggi e soggiorni turistici non è considerata commerciale se è effettuata da associazioni politiche, sindacali e di categoria o associazioni religiose riconosciute (art. 148, 6.comma). Chissà se la specificazione vale anche quando si parla di viaggi per manifestazioni politiche, sindacali e di categoria oppure anche quando non si tratta di pellegrinaggi ma semplice divertimento e salubre relax? Per le organizzazioni sindacali e di categoria non si considerano effettuate nell’esercizio di attività commerciali nemmeno le cessioni delle pubblicazioni, anche in deroga al limite di cui al comma 3 (saranno gli amici degli amici con il trattamento della nazione più favorita?), riguardanti i contratti collettivi di lavoro, nonché l’assistenza prestata prevalentemente agli iscritti, associati o partecipanti in materia di applicazione degli stessi contratti e di legislazione sul lavoro, effettuate verso pagamento di corrispettivi che in entrambi i casi non eccedano i costi di diretta imputazione (art. 148, 7.comma). Ci si arrampica letteralmente sugli specchi e non è nemmeno facile riferirne se ci si vuol far capire.
Troppe deroghe in pochi articoli di legge fanno, in concreto, riaffiorare antiche e non sopite incertezze interpretative delle norme fiscali (riemerge l’aforisma di Giovanni Giolitti: la legge si applica ai nemici e si interpreta per gli amici), applicabili in modo diverso a seconda della categoria politica, culturale, sindacale e religiosa di appartenenza. In realtà, enti non commerciali, enti di tipo associativo e di promozione sociale, organizzazioni partitiche, sindacali e di categoria, enti di mutuo soccorso e cooperative sono destinati – ed è l’unica cosa ben chiara – a trarre eccellenti privilegi destinati a far passare sotto silenzio occupazioni che ben difficilmente potrebbero, con elementare senso logico, essere escluse da un ambito strettamente commerciale, indipendentemente dalle finalità istituzionali che non rivestono nella questione alcuna reale importanza. Parrebbe essere, anzi, che autorizzazioni e divieti siano stabiliti proprio per aprire la porta agli enti non commerciali cosicché possano comportarsi, le cas écheant, come normali società di capitali, operando (senza perdere gli ovvii privilegi) nel mercato. Convinzione forse azzardata ma neppure tanto errata se si considera che il non distribuire utili, in fondo, può benissimo essere largamente compensato da retribuzioni o gratifiche da favola, come capita ad alcuni superprivilegiati, spesso di mano pubblica.
La Costituzione italiana, prestando, in amorevolissima buona fede, il fianco ad una clamorosa e smaccata finzione, offre sostanziali garanzie all’allargamento del settore non profit. Il suo art. 41, recitata la giaculatoria di prammatica [L’iniziativa economica privata è libera, 1.comma], ne riduce immediatamente il contenuto [Se Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, 2.comma, sarà perfetta, sarà giusta, sarà necessaria, sarà utile ma, di fatto, non sarà per niente libera come si pretenderebbe e dovrà sottostare agli intangibili principi che qualcuno si degnerà di dettarle]. Anzi, ad evitare qualsiasi fraintendimento [3.comma]: La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. Morale: non è importante che l’attività economica sia prospera, che generi avanzi di gestione, che produca utili di esercizio o che, insomma, procuri nuova ricchezza, basta che venga indirizzata e coordinata a fini sociali. Il nostro Paese vuole davvero promuovere lo sviluppo economico ed il progresso civile con simili pie invocazioni? L’art. 45 [1.comma, primo periodo], dal canto suo, riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata (torna costantemente il concetto del tanto deprecato profitto). Di conseguenza, La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità [1.comma, secondo periodo].
L’art. 145 del Testo Unico consente agli enti non commerciali l’adesione al regime forfetario spinto sino ad un ammontare di ricavi conseguiti nell’esercizio di attività commerciali che poche piccole e medie imprese possono permettersi (€ 516.456,90) e ad una tassazione con l’ulteriormente agevolato coefficiente del 15% e ciò lascia immaginare che imprese non imprese, con la benedizione costituzionale, non incontrino oggettivi limiti all’estensione delle proprie iniziative. A tutto concedere, come detto, il non profit, quando esercita un’attività economica, dovrebbe essere trattato come qualsiasi altra impresa commerciale. Se è, al contrario, esercizio di reale attività non economica, non potrà mai essere impiegato per risolvere problemi economici. Allorché si possano dare esempi di vere e proprie iniziative commerciali ordinarie camuffate da cooperazione o da non profit, non si fa altro che mistificare la realtà senza generare benefici che non si rivelino discutibili e selettivi (saranno un’altra volta gli amici degli amici degli amici?). Per creare imprese socialmente utili (ed economicamente proficue dato che le due qualità viaggiano immancabilmente unite) non bastano, infatti, delle agevolazioni fiscali che sappiano attrarre nell’orbita del non profit piani che nemmeno lo Stato o gli altri enti pubblici competenti sono sinora stati seriamente in grado di far decollare.
Valga una non secondaria riflessione conclusiva. La cooperazione è un fenomeno, sorto verso la metà del 1800 in Gran Bretagna, a tutela e a protezione delle esigenze delle classi più deboli della società per promuovere iniziative imprenditoriali (cioè non progetti benefici, bensì iniziative commerciali, aspetto economico) a difesa dei bassi redditi degli associati (cioè non carità pelosa, bensì la capacità di darsi da fare, risvolto sociale). Tipica era la cooperativa di consumo che è la forma di cooperazione sociale che si sviluppa, sulla base della reciproca tutela e assistenza, cioè della mutualità, per ridurre i prezzi all’acquisto di beni forse altrimenti inaccessibili per i poveri. L’unione fa la forza recita il vecchio saggio con l’individuo a fare la differenza. Differenza tra inerzia passiva ed energia attiva, tra rinnovamento e deterioramento, tra libertà e oppressione più o meno celata nella forma di democrazia malandata. Una comunità é tanto più vigorosa e pimpante quanto più sa valorizzare la singola persona umana, stimolando il meglio di sé che ciascuno possiede quando c’é senso della responsabilità e si afferma l’intraprendenza. Cooperazione quindi (ossia lavorare insieme con intelligenza) e mutualità (ossia reciproca prestazione, l’un l’altro fra gli associati, di un’attività utile) per svolgere la funzione e le prerogative tipiche degli spacci e della grande distribuzione. Nello stesso senso le cooperative di lavoro hanno storicamente riunito i prestatori d’opera per eliminare e rimpiazzare l’organizzazione fornita dal datore di lavoro ed i suoi costi, non sempre sopportabili da chi è povero. Nella stessa lungimirante prospettiva, le cooperative edilizie hanno permesso la costruzione di abitazioni destinate agli stessi soci che contribuivano al raggiungimento del risultato con l’apporto del proprio lavoro. Si tratta di una significativa immagine economica e sociale che, però, non va (né potrebbe andare) al di là di un limitato ambito di applicazione. Non é, in altri termini, una soluzione in grado di risolvere i problemi economici di un intero Paese.
Non è irrilevante rimarcare, da questo punto di vista, come nessuna Coop al mondo o nessun’altra catena di grande distribuzione in forma societaria cooperativa siano in grado ai nostri giorni di rispettare i principi fondativi della cooperazione testé enunciati che trovano ragione, come detto, nella mutua collaborazione fornita gratuitamente dai soci. Le grandi cooperative della distribuzione operano indistintamente a favore di un pubblico di consumatori (non di soci) nel cui insieme nessun individuo riveste la precipua qualità di collaboratore della cooperativa se non per essere eventualmente un suo dipendente salariato (non un socio). I suoi punti di forza non provengono dalle prestazioni gratuite fornite dagli associati ma in buona parte dalle economie di scala proprie di una qualsiasi catena dedita alla distribuzione commerciale (departimental stores tipo La Rinascente o chain stores tipo La Standa) ed in parte ancor più prevalente dalle agevolazioni fiscali che il sistema le attribuisce con un trattamento che rappresenta un odioso privilegio distorsivo della concorrenza che finisce con il gravare sulla fiscalità generale. Ci si può riempire la bocca di belle parole, di sacre idealità, di giustizia sociale ma è bene ricordare che se lo si fa ci si inganna da soli. Partire da una premessa falsa non farà mai raggiungere un risultato corretto.
Ai fini della qualificazione commerciale dell’ente non commerciale si devono considerare per la norma fiscale la prevalenza delle immobilizzazioni relative all’attività commerciale, al netto degli ammortamenti, rispetto alle restanti attività, dei ricavi derivanti da attività commerciali rispetto al valore normale delle cessioni o prestazioni afferenti le attività istituzionali, dei redditi dipendenti da attività commerciali rispetto alle entrate istituzionali, intendendo per queste ultime i contributi, le sovvenzioni, le liberalità e le quote associative, delle componenti negative inerenti all’attività commerciale rispetto alle restanti spese. Così dispone il 2° comma dell’art. 149 del ripetutamente citato Testo Unico. Le indicazioni sono in astratto ragionevoli ma come potranno tante organizzazione cooperative rispettare onestamente tali limiti? Ma, soprattutto, chi li farà rispettare?
© Carlo Callioni 2012