• Mar. Apr 29th, 2025

Carlo Martello

Un blog per ospitare le mie opinioni su politica, economia, storia, e chi più ne ha più ne metta

Sui recenti fatti accaduti al Rione Traiano di Napoli che hanno portato alla morte di un ragazzo di appena 17 anni, Davide Bifolco, vi sono molte osservazioni da proporre. La prima porta in evidenza una serie di fatti contrari alla legge. Tre persone viaggiano sulla stessa moto. Il giovane morto si trova in compagnia del latitante Arturo Equabile e del pregiudicato Salvatore Triunfo, il che non è certo un delitto ma nemmeno un merito da raccomandarsi. Nessuno ha in testa il casco obbligatorio. La moto, all’alt imposto dai militari, non solo non si ferma ma cerca di dileguarsi. Un presunto testimonio, tale Vincenzo Ambrosio, amico del Bifolco, ai cronisti che lo avvicinano assicura di essere il terzo passeggero di quella moto mentre i carabinieri affermano che il soggetto sia piuttosto il latitante Arturo Equabile, ricercato da diversi mesi per violazione degli arresti domiciliari ed originale oggetto di interesse dei carabinieri in quella maledetta occasione. Forse per rendere più credibile la sua versione Non c’era nessun latitante – dichiara il giovanotto – Ero io a guidare: sono scappato perché non ho né la patente né l’assicurazione. Come chiarimento, non c’è male: uno spavaldo, completo florilegio di comportamenti fuorilegge di cui andar fieri e menare vanto. Quanto al latitante c’è da aggiungere che nella stessa serata egli era già stato individuato mentre saliva su un’auto con altri due uomini, che l’auto, all’intimazione di arrestarsi, anziché fermarsi, era fuggita a tutto gas e che durante il conseguente, inevitabile inseguimento dal finestrino dell’auto era stato buttato in strada un piccolo pacco contenente – lo si sarebbe accertato dopo – una pistola calibro 357 Magnum. Che non è propriamente un giocattolo. Può darsi che in tutta questa vicenda i carabinieri fossero fortemente prevenuti, che l’inseguito non fosse effettivamente Arturo Equabile, che la pistola non gli appartenesse, che la fuga fosse stata dettata solo da inspiegabile ma umana paura. Tutto, sicuramente, possibile. È un fatto però che l’intera storia presenta tanti elementi dubbi da far ritenere i sospetti dei carabinieri non esattamente campati per aria. Da verificare scrupolosamente ma, con buona probabilità, abbastanza ragionevolmente fondati. Sembra perciò essere qualcosa più di una barzelletta – piuttosto, forse, il ritratto scanzonato ma verosimile di una realtà pericolosa e persino tragica, tanto in termini civili quanto sotto un profilo giudiziario penale – quella storiella in cui si racconta dei vigili urbani di Napoli i quali, per incoraggiare l’utilizzo delle cinture di sicurezza sulle vetture, programmano di assegnare un premio di 5.000 euro al primo automobilista che di mattina passa davanti a una pattuglia con la cintura allacciata. Il primo giorno il premio va a una macchina che sta uscendo dal porto. I vigili la fermano e si congratulano con l’automobilista. Uno dei vigili gli chiede cosa pensa di fare con i soldi vinti. – Beh… – dice l’automobilista – Penso che andrò a scuola guida per prendere la patente! Lo interrompe la donna vicino a lui: Non statelo a sentire, sragiona sempre quando è ubriaco. Sul sedile posteriore un uomo che stava dormendo si sveglia, vede la scena e grida: Lo sapevo che non saremmo mai passati con una macchina rubata! Improvvisamente, si sente un colpo dal baule, e due voci con accento africano chiedono: Allora, siamo fuori dal porto? Pare, infine, che non ci siano dubbi almeno sull’identità dell’altro passeggero, il pregiudicato Salvatore Triunfo.

Pensando ai genitori del ragazzo ucciso, ci si può intanto domandare quanto sia normale per un minorenne trovarsi in strada alle due e mezzo di notte e, per di più, nelle condizioni messe orgogliosamente in rilievo ma, quanto meno, assai precarie dal punto di vista della sicurezza personale e della correttezza di comportamento in tema di circolazione. Che essi nella chiesa dell’Immacolata della Medaglia Miracolosa al Rione Traiano dove si è tenuto il rito funebre del figlio fossero disperati è innegabilmente comprensibile. Molto meno giustificabile è che la madre di fronte ai giornalisti si sia lanciata in un’accusa terribile: “il carabiniere che l’ha ucciso marcisca in carcere, non deve avere un momento di pace per tutta la sua vita” quando, forse, poteva essere il caso, innanzitutto e prima di ogni altra recriminazione, di rammaricarsi per avere lasciato briglie troppo sciolte sulle spalle del ragazzino e di non aver controllato con la dovuta diligenza e soverchia prudenza le sue frequentazioni. Grave se le relazioni del figlio e le sue amicizie fossero state totalmente ignote alla famiglia. Ancora più preoccupante se i genitori le conoscevano. D’altra parte, ove venisse davvero confermata l’indiscrezione giornalistica che vorrebbe uno dei figli presente al funerale del fratello in permesso speciale per il fatto di trovarsi agli arresti domiciliari, chissà se su di un piano umano, senza voler quindi neanche minimamente giudicare persone o situazioni qui del tutto ignote e che, in ogni caso, apparirebbero irrilevanti rispetto all’accaduto, un maggiore riserbo dei familiari sarebbe stato preferibile – e magari anche – più consono alla realtà dei fatti.

Che, in fondo, emerga un’infinita comprensione dell’illegalità fa meraviglia e desta, insieme, un sicuro sgomento ed un plausibile turbamento. Le critiche e le minacce all’appuntato da parte della gente del quartiere, una manifestazione di protesta contro l’operato delle forze dell’ordine durante la quale i dimostranti si sono sfogati a scaraventare cassonetti della spazzatura in mezzo alla strada, a gettare sassi contro le forze che rappresentano l’autorità e ad organizzare un blocco stradale spontaneo nel corso del quale è stato fermato persino un autobus sono tutte manifestazioni di dichiarata ed inescusabile illegittimità. Essendosi successivamente spostato il gruppo verso l’uscita della tangenziale di Fuorigrotta, l’arresto del traffico in quell’area non si configura quale semplice protesta ma indica chiaramente che la gente si mette coerentemente dalla parte dell’arbitrarietà. È l’alterazione ordinaria della logica e del significato degli accadimenti. Queste manifestazioni mantengono purtroppo vivi nella memoria il ricordo e la dannazione di altrettali spettacoli organizzati negli anni di piombo dai partiti politici e, soprattutto, dai sindacati cui tutto, da allora, è stato permesso e concesso. È ora che la società smetta di subire, o di non reagire che è anche peggio, il condizionamento di un passato che ha tristemente soffocato ogni istanza di civile convivenza perché una costante mistificazione della verità, se continuamente ripetuta, nell’immaginario, acquisisce essa stessa, valenza di oggettiva realtà e diviene la sostituzione ingannevolmente artefatta del vero. Affinché non siano la finzione o l’imbroglio a risultare lodevolmente legittimati o addirittura premiati. Non è cronaca così sporadica o eccezionalmente isolata – volendoci fermare a Napoli per non allargare inutilmente il discorso – quella delle persone multate per eccesso di velocità che, ciononostante, percepiscono una pensione per cecità, quella della famiglia di 11 persone, padre, madre e prole varia, tutte immancabilmente invalide, o la storia nella quale ti ritrovi fra i piedi sempre i soliti abituali protagonisti del piccolo cabotaggio criminale: il funzionario sempre disponibile ad essere infedele, il medico che non ha remore nel farsi corrompere, i clan della camorra che si disputano allegramente il territorio ed infine i beneficiati di un trattamento di invalidità che non mancano mai. Nel 2009, a santa Lucia, i Carabinieri arrestano un consigliere comunale che aveva raccolto intorno a sé una combriccola per creare falsi ciechi. L’episodio è riportato da Il Fatto Quotidiano del 10 febbraio 2014, articolo che Toni Nocchetti titola retoricamente Napoli: falsi invalidi o veri delinquenti? per darsi sintomaticamente un’immediata risposta chiarificatrice: Falsi invalidi? No, veri delinquenti. È l’incapacità di tenere pulita la città che faceva scrivere a Sergio Rizzo sul Corriere.it del 29 agosto 2011 come sia Difficile da credere che la città italiana dove la tassa sulla spazzatura è la più alta in assoluto sia proprio quella che ha più problemi con l’immondizia. Gian Antonio Stella, d’altronde, sempre sul Corriere.it, il 22 dicembre 2011 annotava: La Campania vuole un altro condono … chi è in testa alle regioni-canaglia secondo un’indagine del Cresme, con 19,8 case abusive su 100 esistenti? La Campania. Nello stesso brano il giornalista aggiungeva: ad una fiaccolata per le vie di Bacoli, in faccia a Pozzuoli, ha partecipato perfino il vescovo Gennaro Pascarella (È solo per stare vicino alle famiglie che hanno fatto le case in modo illegale, ma non per speculazione. Non hanno altro e una volta messi fuori che faranno? la sua letterale ma sorprendente giustificazione) da cui, relativamente al prelato, è lecito trarre l’amletico dubbio se si tratti di una scusante soltanto sciocca o di un pensiero meditato attraverso il quale ci si potrebbe convincere che il fine giustifica i mezzi, alla faccia dei buoni e, incidentalmente, condivisibili principi predicati dal Catechismo della Chiesa. Fatta questa doverosa premessa, scompare ogni perplessità nell’ascoltare l’articolista che prosegue sostenendo come In Campania ben il 67% dei Comuni che sono stati sciolti per mafia dal 1991 a oggi, lo sono stati proprio per abusivismo edilizio. Ricordando poi che gli scontrini fiscali sono omessi anche fino al 90% dei casi e di come capita di trovare autovetture di lusso in mano di nullatenenti o di lavoratori irregolari, anche con partecipazione di extracomunitari naturalmente privi del regolare permesso di soggiorno. Né scordando di segnalare le gravi irregolarità che si danno in materia di sicurezza sul luogo di lavoro, il contrabbando di sigarette, sintomatico risalto di un disagio atavico e ancora parecchio diffuso, il prospero fenomeno dei falsi, una delle industrie ritenute fra le più importanti della regione, per capi di abbigliamento di griffe falsificate delle più ricercate case di moda, o per giocattoli privi dei requisiti di sicurezza. Un recente reportage del Corriere della Sera, pubblicato il 23 settembre 2014 – ricordate le parole di Totò nel film La banda degli onesti  (I soldi si fabbricano al Policlinico dello Stato) – sostiene che la scuola napoletana di falsari sia ottimamente considerata e molto apprezzata dai delinquenti dell’intera Europa e ricorda come più del 50% del denaro contraffatto nell’eurozona viene prodotto nell’hinterland partenopeo: a Giugliano, Afragola, Marano, Quarto, Pozzuoli, Aversa.

Pare che alla scena della morte di Davide Bifolco abbiano assistito almeno sei testimoni, fra i quali il Vincenzo Ambrosio già sopra citato perché senza patente ed assicurazione. Tutti pronti ad accusare il carabiniere di avere colpito il ragazzo mentre questi si trovava di spalle. Tutti clamorosamente smentiti dalla perizia tecnica eseguita al riguardo. Pare inoltre che i testimoni disposti a farsi intervistare (cosa che consente un momento di inebriante celebrità e libero sfogo nel raccontare fandonie) siano stati, nei giorni immediatamente successivi alla disgrazia, una vera moltitudine. In una città dove vige di norma l’omertà. Tutti, in piena notte, a zonzo per le vie di Napoli. Ma non sul lungomare di via Caracciolo o nell’ampia piazza Plebiscito bensì in Rione Traiano, un quartiere di forte inquinamento mafioso, centrale ma, tutto sommato, secondario e non così attraente. Nessuno preoccupato per eventuali impegni di lavoro o di studio della mattina dopo. Tutti a fornire un’assistenza, come il parroco, Lorenzo Manco, che, durante l’omelia delle esequie, con fare ispirato e guardando verso l’alto dice: Signore perché hai permesso che un sedicenne perdesse la vita? Senza il minimo accenno o al carabiniere che stava facendo il suo lavoro o alla delinquenza organizzata, la camorra, che, comunque sia, è per la Campania una vera maledizione. Attorno alla bara, per il funerale, ad accompagnare il ragazzo scomparso, ragazzi e ragazze, due o tre per motorino, naturalmente senza casco e, probabilmente, senza futuro. D’altra parte è di Napoli il noto capo degli ultrà della squadra cittadina di calcio Gennaro De Tommaso, meglio conosciuto con l’appellativo di Genny ‘a carogna. Il De Tommaso è finito in questi giorni ai domiciliari per aver oltraggiato le forze dell’ordine e per avere indossato la maglietta Speziale libero lo scorso 3 maggio allo stadio Olimpico. Arrampicato, per di più, su di una ringhiera che divide il pubblico dal campo di gioco, aveva fra l’altro impedito il regolare inizio della partita di finale di Coppa Italia Fiorentina – Napoli.

Che dire, infine, della presenza e della voce della società civile, delle autorità locali, delle istituzioni politiche e di quelle religiose? Per l’allestimento della camera ardente si è fatto ricorso ad una associazione ubicata a poca distanza dal luogo della tragedia, dedicata alla Madonna dell’Arco e sorta in memoria di Aldo Moro e della sua scorta senza, forse, pensare che nella vicenda dell’on. Moro le vittime non erano delinquenti accertati. Laura Boldrini, presidente della Camera dei deputati, non si è sbilanciata più di tanto in favore della legalità che pur dovrebbe istituzionalmente riverire. Dopo un annuncio, molto di prammatica, per cogliere la frustrazione delle forze di polizia, si è augurata che venga fatta chiarezza fino in fondo, quasi paventando l’eccesso di potere ingiustificatamente esercitato in danno di un povero ed innocente ragazzo. Sulla stessa lunghezza d’onda del parroco. Anche lui ha dichiarato: Siamo vicini alla sua famiglia in queste ore drammatiche. Nessun riferimento, beninteso, al carabiniere. Il sindaco Luigi De Magistris per la cerimonia funebre ha inviato una corona di fiori ed ora si dà da fare per istituire un luogo della memoria in onore di Davide Bifolco benché non sembri proprio ci sia alcunché da ricordare o da onorare. Con una sottolineatura autentica dello stesso De Magistris il quale, per essere certo che lo si capisca bene, ha dichiarato testualmente: per fare una cosa molto giusta e vicina alle esigenze dei familiari e degli amici di Bifolco. Una evidente mancanza di riguardo nei confronti del carabiniere protagonista della vicenda che già da queste parole finisce per essere condannato ben prima di una condanna da regolare processo. Un genuino insulto alle tante vere vittime della camorra e un chiaro sgarbo alla Procura che ha fatto requisire un terreno su cui, abusivamente, il va sans dire, gli amici del morto intendevano erigere una cappella alla memoria. Volendo fare una cosa molto giusta e vicina alle esigenze dei cittadini sarebbe stato indubbiamente preferibile curare il normale funzionamento delle telecamere dislocate lungo il percorso che è stato seguito nell’inseguimento, telecamere che, invece, al sopraluogo effettuato immediatamente dai carabinieri sono risultate tutte essere fuori servizio.

Tanto spiccato senso della giustizia non ha evitato, peraltro, all’ex pm di Catanzaro la condanna a un anno e tre mesi di reclusione pronunciata in questi giorni dalla decima sezione penale del Tribunale di Roma per avere egli acquisito illegittimamente, nell’ambito dell’inchiesta calabrese Why not, i tabulati telefonici di alcuni parlamentari senza la necessaria autorizzazione delle Camere di appartenenza. Stando ai giudici del Tribunale, fra l’altro, sembra che le conclusioni tratte dall’allora pm sulla vicenda non potessero reggere né al riscontro della logica comune né alle esigenze specifiche del procedimento giudiziario. La superinchiesta, ad ogni buon conto, è durata parecchi anni ed è complessivamente costata all’Erario, cioè ai contribuenti italiani, qualcosa come 10 milioni di euro. È riuscita però a rovinare il governo Prodi (2006 – 2008) portandolo alla crisi e determinando la fine anticipata della legislatura coinvolgendo un centinaio di indagati tra cui lo stesso premier (poi archiviato) e il ministro della Giustizia, Clemente Mastella (poi archiviato con la motivazione: non vi erano neanche gli estremi per poter iscrivere Mastella nel registro degli indagati). Un processo fumoso e in definitiva sterile di cui rimane solo la notevole testimonianza della spietata zuffa tra magistrati, tra la Procura generale di Catanzaro e la Procura di Salerno, atteso il fatto che la loro attività più evidente, ma davvero poco edificante, è consistita nel tentativo reciproco di contro-sequestrarsi i fascicoli di causa. Il buffo, paradossalmente, è che l’unico condannato, al momento attuale (insieme al suo  superconsulente informatico Gioacchino Genchi), è proprio Luigi De Magistris, il magistrato che ha alimentato quel giudizio anche se per la condanna egli afferma si tratti di una sentenza che giuridicamente fa acqua da tutte le parti. Sarà. Ma nemmeno le sue analisi – quelle, almeno, che, essendosi lui per lo più occupato di corruzione nella pubblica amministrazione e in merito ai rapporti tra la criminalità e la politica, hanno riguardato personaggi conosciuti,  importanti e normalmente famosi – pare abbiano prodotto risultati eclatanti salvo il fatto di costare la solita enormità di euro sopportata dai comuni contribuenti. C’è da ricordare che il 19 ottobre 2007 la procura di Catanzaro aveva già avocato al proprio ufficio, per presunta incompatibilità, il lavoro sin lì svolto, sottraendolo a Luigi De Magistris. Si tratta sempre in questo genere di attività giudiziaria di esplorazioni che, coinvolgendo un numero consistente di indagati, richiede da parte del giudice la massima prudenza possibile per non trascinare nel fango l’intero mondo senza il possesso di prove inconfutabili da esibire nell’instaurando processo. Il procedimento Poseidone, ad esempio, relativo al depuratore di Catanzaro Lido, iniziato presso la procura di  Catanzaro nel lontano maggio 2005 vede, in data 3 giugno 2011, il rinvio a giudizio di 23 accusati e la pronuncia di proscioglimento per altri 11 soggetti: in totale 34 persone rimaste sotto torchio per un bel po’ di tempo. La causa – un presunto uso illecito di 200 milioni di euro di denaro pubblico proveniente da aiuti comunitari finalizzati al finanziamento di opere di depurazione – per irregolarità procedurali appurate nel corso del suo svolgimento, viene, come era capitato d’altra parte anche a Why not, sottratta a Luigi de Magistris ed affidata ad altro giudice. C’è stata una sola condanna nel giudizio di primo grado, per l’ing. Giovanni Angotti. Ma la Corte d’appello di Catanzaro ha ribaltato persino l’esito di quell’unica sanzione concedendo all’imputato la piena assoluzione per non aver commesso il fatto. Per gli altri sotto processo la causa è ancora in corso ma, considerato il teorema approntato da Luigi de Magistris che prevedeva, per tutti, un reciproco ed unico accordo collusivo per alterare la regolarità della gara, non è escluso né improbabile che l’esito sia di proscioglimento generale e completo per tutti. È esistito anche un secondo giro denominato sempre Poseidone. Qui gli accusati sono soltanto cinque ma, pure qui, sono tutti di peso: l’ex procuratore generale di Catanzaro, l’ex procuratore capo, l’ex sostituto procuratore generale, l’ex presidente dell’ufficio del giudice per le indagini preliminari (GIP) e del giudice dell’udienza preliminare (GUP) ed un carabiniere in servizio alla Procura della Repubblica di Catanzaro. L’oggetto è una presunta fuga di notizie – soffiata che avrebbe favorito un indagato – per una perquisizione che era stata disposta nell’ambito dell’inchiesta Poseidone. I fatti esaminati sono stati tuttavia giudicati dalla Procura di Salerno, competente in tema di cause relative ai magistrati di Catanzaro, privi di connotazioni che evidenzino responsabilità penali e l’archiviazione è seguita – naturaliter – per iniziativa del gip. Una montagna di prove, avrebbe dichiarato a suo tempo Luigi de Magistris ostentando una grande sicurezza sullo sviluppo e sull’esito del giudizio. L’insussistenza della notizia di reato, ha controbattuto il gip della Procura di Salerno deriva dall’insostenibilità della fattispecie associativa che regge il lacunoso impianto accusatorio, essendo del tutto carente la prova in ordine all’esistenza di un sodalizio avente le caratteristiche innanzi menzionate. Secondo Luigi de Magistris un nutrito comitato d’affari, formato da più di 30 persone, comprendente politici, magistrati, avvocati, imprenditori e funzionari pubblici, avrebbe intrapreso rilevanti iniziative economiche in  Basilicata. È il presupposto di partenza di Toghe lucane che sfocia in accuse di abuso d’ufficio, corruzione in atti giudiziari, associazione per delinquere e truffa aggravata, distribuite variamente sui diversi personaggi indiziati. Spicca fra di essi Filippo Bubbico – segretario provinciale del Pci di Matera (dal 1987 al 1991), presidente della Giunta regionale della Basilicata (16 aprile 2000), sottosegretario di Stato per lo sviluppo economico (dal 17 maggio 2006 al 6 maggio 2008 nel secondo Governo Prodi), viceministro dell’Interno nel Governo di Enrico Letta (2 maggio 2013) ed ora del Governo di Matteo Renzi (28 febbraio 2014) – che avrebbe agito nel gruppo in qualità di elemento di intesa centrale e comune punto di riferimento politico di vertice. Nel marzo del 2011 l’intera inchiesta è stata archiviata dal Giudice dell’udienza preliminare di Catanzaro Maria Rosaria di Girolamo, con la precisazione che l’impianto accusatorio è lacunoso e tale comunque da non presentare elementi di per sé idonei ad esercitare l’azione penale. Tutti i più di trenta indagati sono stati scagionati. Ultimissima operazione in ordine di tempo è quella denominata Drug off che, alcuni giorni fa ha visto l’assoluzione piena, perché il fatto non sussiste, di 51 imputati riconosciuti innocenti dopo 8 lunghi anni di patimenti giudiziari (la vicenda, per sradicare un traffico di droga ed il riciclaggio di auto rubate in quel di Catanzaro, era iniziata nel luglio 2006: 2 anni di indagini, 477 capi di imputazione, un’ordinanza di 1.971 pagine) mentre per la cinquantaduesima persona fra quelle inizialmente fermate dal pm Luigi de Magistris (lui, di fermi, stando ad un’indiscrezione congiunta di Dagospia e Il Giornale [1 ottobre 2014], ne avrebbe chiesti addirittura 70) è uscita dal processo perché deceduta in pendenza di giudizio. Laurea in Legge, figlio e nipote di Magistrati, entrato in Magistratura nel 1995, Magistrato preso la Procura di Napoli dal 1998 al 2002, poi sostituto Procuratore della Repubblica nel Tribunale di Catanzaro. Visti i risultati conseguiti in carriera, se Luigi de Magistris, avesse lavorato in un’azienda privata non avrebbe retto tutto questo tempo. Avrebbe probabilmente dovuto cambiare mestiere molto prima. Ma era un giudice e le illogicità e le stranezze che accompagnano i suoi exploits hanno prodotto unicamente un provvedimento disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura che lo trasferisce da Catanzaro a Napoli. Dal che si possono dedurre due cose. Da un lato, che anche il Consiglio Superiore della Magistratura riconosce l’esistenza di originalità quanto meno border line al punto di sentire il dovere di intervenire. In secondo luogo, che un Magistrato particolare a Catanzaro meriti di essere promosso a Napoli realizza, sì, la locuzione latina promoveatur ut amoveatur, ma in modo almeno ambiguo. Nella sua accezione classica, infatti, il principio dalla rimozione farebbe conseguire la promozione ad un qualunque altro incarico di rango superiore ma, nondimeno, meramente onorifico o comunque di scarsa importanza, essendo questo l’unico mezzo indolore per poter allontanare una persona indesiderata dalla posizione occupata senza sue plausibili recriminazioni ed evitando il possibile insorgere di nuovi e maggiori danni. Ma Napoli è, sotto qualsiasi aspetto, ben superiore a Catanzaro e, quindi, il detto, nella fattispecie, si può supporre abbia funzionato solo a metà. Per avere un quadro complessivo degli insuccessi totalizzati da Luigi de Magistris nella sua veste di Magistrato, è illuminante un articolo pubblicato su Libero.it il 3 ottobre 2014, a firma Filippo Facci, dal titolo sintomatico “Quanti flop. Luigi De Magistris da pm perdeva anche con i morti”, che offre una panoramica desolante ma interessante delle sue attività. Talmente negativa da far pensare, malgrado i dati prodotti siano assolutamente circostanziati e, di conseguenza, agevolmente verificabili, se non ragionevolmente veri, si tratti di una montatura tanto violenta quanto infondata.

Un discorso simile, quasi in fotocopia, interessa Henry John Woodcock il quale, dopo essere stato, all’esordio, uditore presso il Tribunale di Napoli, è passato al Tribunale di Potenza per poi tornare ancora al Tribunale di Napoli in qualità di sostituto procuratore della Repubblica. Anche gli insuccessi di Henry John Woodcock provengono da inchieste roboanti. Quella denominata Vipgate è stata un avvenimento di tutto e di più, partito nel 2003 e riguardante a vario titolo (associazione a delinquere per turbativa di appalti, corruzione, estorsione e così via) ben 78 persone (Francesco Storace, al tempo presidente della regione Lazio, ironicamente disse: Se non stai in un’inchiesta di Woodcock non conti niente) tra cui i politici Franco Marini, Nicola Latorre, Maurizio Gasparri e, appunto, Francesco Storace, Flavio Briatore, il diplomatico Umberto Vattani, il cantante Tony Renis e la conduttrice tv della trasmissione di cronaca parlamentare Telecamere Anna La Rosa. Il tribunale di Roma, dopo che Potenza si era dichiarata incompetente, archivia per l’impossibilità di sostenere l’accusa in giudizio. La Iene 2 nel 2004 ipotizza connessioni tra esponenti politici lucani e criminalità organizzata ma finisce con 51 arresti respinti. I due accertamenti di maggior spicco sono il Savoiagate che, avviato il 16 giugno 2006, se la prende con Vittorio Emanuele di Savoia, arrestato per associazione a delinquere finalizzata allo sfruttamento della prostituzione, alla corruzione e alla concussione, falsità ideologica, minacce e favoreggiamento oltre all’accusa, per non farsi mancare proprio niente, di essere a capo di un’organizzazione attiva nel gioco d’azzardo illegale, con Simeone II di Sassonia Coburgo Gotha [ex premier della Bulgaria, cugino e coetaneo di Vittorio Emanuele] e con il sindaco dell’exclave italiana in Svizzera di Campione d’Italia Roberto Salmoiraghi  [che era anche il medico di base di Campione e che fu tradotto da Como al carcere di  Potenza ove rimase in cella per quindici giorni prima di venire posto agli arresti domiciliari] anche se l’inchiesta deve abbandonare la procura di Potenza, foro non territorialmente competente, per approdare a Como, foro valido perché al centro della ricerca si trova il casinò di Campione d’Italia, dove, comunque, si affloscia tanto che nel 2010 Vittorio Emanuele e gli altri imputati vengono assolti con la formula il fatto non sussiste. Il 27 marzo 2007 il gip Pietro Martinelli accoglie l’istanza di archiviazione perché i fatti non hanno rilevanza penale che è persino peggio, a significare che l’accusa non ha saputo distinguere nemmeno fra la rilevanza e l’irrilevanza penale di determinati eventi) e Vallettopoli (per un presunto giro di ricatti nel mondo dello spettacolo relativo alla soubrette Elisabetta Gregoraci e a Salvatore Sottile, Lele Mora, Fabrizio Corona più l’allora ministro Alfonso Pecoraro Scanio [naturalmente anche questa inchiesta finisce fuori sede, al tribunale dei ministri di Roma, e si conclude in una bolla di sapone, salvo che per la condanna a Milano di Fabrizio Corona]. L’ultima iniziativa di rilievo ha per obiettivo la P4, un sistema informativo parallelo predisposto dal mediatore Luigi Bisignani (Alfonso Papa, del Popolo della Libertà, è il primo parlamentare italiano a finire in carcere per reati non violenti, con l’accusa di aver fornito a Bisignani informazioni sensibili ottenute con l’aiuto del maresciallo dei carabinieri Enrico La Monica. Dopo 157 giorni di reclusione Papa viene scarcerato dal Tribunale del Riesame che afferma l’inesistenza di prove del rapporto con La Monica. Non solo: la Cassazione e il riesame di Napoli sanciscono l’insussistenza degli indizi in relazione al reato di associazione per delinquere. La P4, insomma, come a suo tempo la P2, l’inchiesta che venne smantellata per totale inconsistenza delle accuse promosse da Gherardo Colombo, pubblico ministero al Tribunale di Milano, e che, con una esemplare sentenza di Cassazione che aveva osservato le tante antinomie e le impalpabili congetture del processo, fu persino ridicolizzata in quanto i crimini ipotizzati erano del tutto vaghi e nebulosi).

In realtà Luigi de Magistris, come Antonio di Pietro che aveva aperto la strada mostrando chiaramente come il lavoro di pubblico ministero possa generare, se si sanno sfruttare le occasioni giuste, un’enorme pubblicità con la quale garantirsi un’agevole discesa nell’agone politico, si dà alla politica e proprio con la spinta dell’ex collega viene eletto nel 2008 europarlamentare dell’Italia dei Valori. Poi, l‘1 giugno 2011, a fama ormai consolidata, arriva, con il movimento arancione, l’elezione a sindaco di Napoli, la terza più grande città italiana per numero di abitanti dopo Roma e Milano, elezione riconfermata al secondo mandato ed ora anticipatamente interrotta in virtù della condanna relativa all’inchiesta calabrese Why not. Vale la pena di adocchiare i commenti che appaiono sul sito di Luigi de Magistris perché ricchi di significato. In primis, Le sentenze devono essere rispettate, anche criticate e raccontate, ma questa è una sentenza che giuridicamente fa acqua da tutte le parti (26 settembre 2014) è una novità assoluta perché ci era stato sinora sempre predicato che le sentenze devono essere rispettate e che ad esse si deve dare esecuzione. Punto, a capo. Il Magistrato Luigi de Magistris scopre invece che le sentenze, nell’ordine, possono (meglio di devono) essere altresì criticate e raccontate. Inoltre, con l’affermare che La sentenza che mi ha coinvolto è inaccettabile e intrisa di violazioni di legge (25 settembre 2014) e che La magistratura non è un moloch di gente per bene, perché ci sono anche fior di delinquenti (24 settembre 2014) si svela, in altri termini, un universo interamente nuovo. Quelle del de Magistris sono affermazioni davvero pesanti che lui può forse permettersi ma che se fossero state pronunciate da un qualsiasi comune mortale avrebbero scatenato, come minimo, querele a non finire. Roberta De Maddi (L’Huffington Post del 3 ottobre 2014) riferisce di un flash mob a sostegno (#sospendetecitutti) ed un presidio fisso, con centinaia di persone in piazza Municipio, proprio sotto il Comune, che hanno gridato slogan come ha fatto così tanto bene alla città e ha combattuto la camorra. Napoli si dichiara in sintonia totale con l’ex sindaco. Non serve che il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Rodolfo Sabelli, replichi: Quelle di De Magistris sono affermazioni molto gravi perché esprimono disprezzo non nei confronti di questi o quei giudici, ma nei confronti della magistratura e della giurisdizione. Napoli non vuole tuttavia sentire ragioni. La Giunta del Comune di Napoli esprime massimo sostegno al sindaco Luigi de Magistris. E ancora: Questa amministrazione – si legge – che si è posta in rottura con un certo sistema e un certo modo di fare politica, continuerà ad impegnarsi e a lavorare per l’interesse della città come fatto fino a questo momento. Restano immutate la stima e l’affetto per il sindaco, il quale incarna lo spirito di rinnovamento di questa esperienza e rappresenta il perno politico di tutta la nostra Giunta. Così recitava una nota di palazzo San Giacomo prima della condanna (fonte il Velino/AGV NEWS Napoli, 25 settembre 2014).

La legge Severino, che per tante buone ragioni è assai discutibile, sul punto non sembra equivocabile. Finché è legge dello Stato va applicata in tutto il territorio nazionale. Anche a Napoli. Tre persone non possono viaggiare sulla stessa moto. Tutti devono indossare, viaggiando, la cintura di sicurezza in auto e il casco obbligatorio in moto. La patente e l’assicurazione di responsabilità civile per le autovetture e le motociclette, se stabilite per legge, sono obbligatorie per tutti. Se le forze dell’ordine impongono l’alt ci si ferma. Scaraventare cassonetti della spazzatura in mezzo alla strada, gettare sassi contro le forze dell’ordine e organizzare blocchi stradali, interrompere il traffico senza autorizzazione sono comportamenti sconvenienti e certamente da stigmatizzare e da reprimere. I tanti falsi invalidi danno vita ad un notevole imbroglio di significativa rilevanza sociale che sfocia nel reato di falso e truffa aggravata. Il fenomeno delle case costruite abusivamente è un reato di abuso edilizio, cioè una grave piaga giuridica che, negli anni, i numerosi condoni hanno più istigato che disincentivato rendendo il fenomeno largamente diffuso. Questa ira di Dio non richiede interpretazioni né da scienziati né da indovini: è dovuta ai cittadini che, complici semmai le amministrazioni pubbliche preposte ai controlli e i vescovi benedicenti alla Gennaro Pascarella, costruiscono, legittimamente o abusivamente, dove non sarebbe ragionevole costruire (salvo poi reclamare gli indennizzi dello Stato se capita loro un qualche guaio). Cemento vista vulcano scrive Valeria Chianese (Versuvionews, tratto da Avvenire.it,  13 gennaio 2010): Il silenzio del Vesuvio dal 1944 ha incrementato, a partire dagli an­ni Cinquanta, la cementificazione in tutta l’area del vulcano. Palazzine e villette, alberghi e ristoranti affonda­no le fondamenta sulla falda trabal­lante del Vesuvio, gli ospedali sorgo­no sulle conche laviche, la vita bruli­ca sulle vie di lava scavate nei secoli dalle eruzioni. Abusivismo cronico eppure, predicano i vulcanologi, non esiste al mondo una località a più al­to rischio vulcanico considerando l’abnorme concentrazione edilizia spintasi fino a poche centinaia di me­tri dal cratere. Nessuna via di fuga. Sconsolata la constatazione di sintesi: cen­simento degli edifici abusivi, 7 mila, più probabile oltre i 10 mila: cinque volte in più di quelli condonati negli ultimi dieci anni. Con una ciliegina sulla torta: gli abusi sul Vesuvio non si limitano all’edilizia, si va dallo scavo illegale di cave non autorizzate per l’aspor­to di sabbia, pietrisco e pietra lavica, agli sbancamenti e movimenti di ter­ra (attività già di per sé vietata ma che spesso è il preludio di altre attività a­busive) alle discariche di materiali tossici o edili. Sarà una semplice coincidenza ma pare che esista una notevole correlazione diretta fra territori maggiormente inquinati dalla criminalità organizzata  e territori maggiormente esposti all’abusivismo edilizio, il che significa ampia collusione fra mafia e potere politico, inadeguatezza e persino inettitudine, dal punto di vista del controllo di legittimità, omertà e favoreggiamento di aziende colluse nel variegato settore delle costruzioni. Vi sono in Campania due casi emblematici: a sud l’intervento della società Coppola Pinetamare, a nord quello della società Aurunca Litora. Il complesso turistico Pinetamare, o Villaggio Coppola, in comune di Castelvolturno, è abusivo. Porto privato, 600 posti barca. In più alberghi, residence, negozi e supermercati. Fu costruito nel 1962. Le famose 8 torri, inizialmente affittate per 20 anni alla Marina Americana, furono nel 2001 abbattute. Paradossalmente erano l’unica area non-demaniale di proprietà dei Coppola. I guai dell’iniziativa si evidenziano in concomitanza con il Terremoto dell’Irpinia. Nel 1980 e nel 1981, con due ordinanze, il commissario straordinario del Governo e il Sindaco di Napoli ordinano ai proprietari delle villette di cedere per sei mesi il proprio immobile ai terremotati. In 5.000 occuperanno villette e parte delle torri visto che l’affitto della Marina Americana era precedentemente ormai terminato. I privati sognavano un oasi felice di tranquilla agiatezza. Il concentramento di terremotati abbatte invece il valore dell’area e, con l’inevitabile svendita, si determina il progressivo abbandono della zona. Tutto ciò senza contare il difetto originario dell’abusivismo che ha fatto sì che si costruissero 3.000 alloggi, alberghi, scuole, caserma, chiese e si occupasse anche un pezzetto di mare costruendo 500 palazzi e/o villette ed un porto pur disponendo di sole 500 licenze per abitazioni. Chi ha comprato scappa; chi avrebbe voluto acquistare lascia perdere. Le proprietà affittate a suo tempo agli Americani, ormai del tutto svalutate, finiscono nelle mani degli immigrati o vengono abbandonate e rimangono vuote. Il litorale domiziano, come il Villaggio Coppola, si trova in provincia di Caserta ed è alla foce del Garigliano, poco più a nord del Villaggio Coppola. Si affacciava sul mare con bellissime dune mobili ed una splendida pineta demaniale. Ora le dune sono sparite e la pineta è quasi scomparsa per far posto ad otto grattacieli identici di dodici piani, 80 appartamenti l’uno e 3 milioni di metri cubi di area demaniale occupata. Quindicimila persone abitano in case al 90% abusive e per il 60% erette su terreni di proprietà demaniale. Nessuno ha voluto ascoltare le diverse denunce della polizia, dei carabinieri, delle associazioni a protezione dell’ambiente e persino di privati. Risulta nei documenti della commissione parlamentare antimafia che nonostante l’assenza di alcuna autorizzazione, sono state rilasciate sia l’abitabilità sia la licenza di attività alberghiera. Anche in questo caso il terremoto dell’Irpinia del 1980 ha peggiorato le cose, alimentando il degrado. Il Cosida, Residence di Baia Domizia Sud, venne reso del tutto inagibile dai terremotati e, in alcuni punti, letteralmente devastato in modo irreparabile con il rischio di crollo. Per riattarlo si dovettero eseguire radicali opere di ripristino. Uno degli aspetti meno eclatanti, ma non meno importanti dell’abusivismo edilizio è la rischiosità che dalla violazione delle norme deriva alla sicurezza delle costruzioni in aree soprastanti falde acquifere superficiali, in zone di terreno friabile o a rischio di smottamento o in zone ad elevato rischio sismico con gli stessi fruitori dei manufatti abusivi ad essere i soggetti esposti maggiormente ai rischi del caso.

Più tangibile della supposta giustizia sociale – che al giorno d’oggi continua tuttavia ad andare per la maggiore – è quella raffigurazione della vita umana che pone il sorgere di parecchie istituzioni – il linguaggio, il mercato, la moneta, la famiglia, il diritto, la città, la nazione – come esito non di decisioni intenzionalmente ingaggiate ma per via spontanea dato che, come insegnano Carl Menger e Friedrich August von Hayek, le istituzioni intenzionali possono mancare il loro proposito mentre quelle non intenzionali durano nel tempo proprio perché rispondono ad esigenze profonde di convivenza umana, anche se tali necessità sono magari percepite inconsapevolmente o involontariamente (in linea anche Giambattista VicoHomo non intelligendo fit omnia … l’uomo, senza essere consapevole, crea tutte le cose). Lo Stato è un’entità essenzialmente giuridica e convenzionalmente istituzionale. Una decisione politica può modificarlo in ogni momento. È cioè, spesso, frutto di intenzionalità. Al contrario, una Nazione si forma quando una moltitudine di persone condivide nel lungo periodo, anche di secoli, un passato contrassegnato da storia, tradizioni, lingua e cultura comuni ed è tipicamente una creazione spontanea e non intenzionale. Dalla Nazione può derivare lo Stato, ma non vale il rovescio. In tutte le osservazioni sopra esposte su Napoli si possono ravvisare diversi comportamenti contra legem, quindi contro lo Stato. In primo luogo, si tratta di condotte individuali che non possono giustificarsi ma possono capirsi perché ogni essere umano ha una sua propria morale, talvolta anche assolutamente stigmatizzabile. In seconda battuta, la reazione dei napoletani che hanno manifestato una eccessiva comprensione dell’illegalità e, per converso, un vero e proprio astio, se non odio, verso l’autorità costituita. D’altra parte, nemmeno le istituzioni hanno fatto niente per contrastare il loro dissenso. Viene spontaneo chiedersi se la giuridicità e le istituzioni dello Stato siano state in realtà salvaguardate. Hanno, al massimo, abbozzato. Perché, se così non fosse, l’unità nazionale cui spesso si fa riferimento, molte volte per pura ed irreale retorica, sarebbe soltanto una azzardata illusione. Sopratutto verso la Nazione, più che non nei riguardi dello Stato, metodi pervicacemente illegittimi mettono a durissima prova i suoi principi fondativi. Perché come Stato una soluzione potrebbe essere possibile anche in presenza di differenze non facilmente conciliabili né sanabili – ove un organismo superiore fondato su una carta federale in virtù di norme di diritto costituzionale (federalismo) o da costituirsi in forza di principi del diritto internazionale (confederalismo) potesse almeno garantire l’osservanza di norme statali cogenti valide per tutti ma anche da tutti rispettate – lasciando ai singoli partecipanti l’onere e l’onore di darsi legislativamente regole proprie di vita associativa anche molto diverse le une dalle altre di modo che un’autonomia ed una indipendenza assolute ed incondizionate possano affermarsi. È infatti ovvio pensare che per la Nazione i principi di comportamento debbano ispirarsi a realtà fatta di interazioni sociali volontarie, basata sulla cooperazione spontanea fra individui, nella quale la presenza dello Stato si appalesa in modo sorprendentemente rarefatto (Alberto Mingardi, L’intelligenza del denaro, 2013, Marsilio Editori in Venezia, gennaio 2013). Come diceva Giuseppe Mazzini nei Doveri dell’uomo: La vostra libertà non è la negazione d’ogni autorità; è la negazione d’ogni autorità che non rappresenti lo scopo collettivo della Nazione, e che presuma impiantarsi e mantenersi sovr’altra base che su quella del libero spontaneo vostro consenso, strettamente ancorati a quei principi morali e sociali che ci vengono dalla tradizione del nostro Paese e ad uno stile di vita che un tempo si definiva del buon padre di famiglia. Faute de quoi, la Nazione non può esistere. Potrà semmai sopravvivere lo Stato. Ma con vita molto grama e fra infiniti stenti che lo renderanno debole ed esposto pericolosamente alle intemperie. Concretamente, l’Italia. Praticamente, un sacco vuoto.

© Carlo Callioni 2014